lunedì 29 novembre 2010

La Duma ammette: Stalin ordinò il massacro di Katyn



Un nuovo passo di riavvicinamento tra Russia e Polonia chiude contemporaneamente una delle pagine più dolorose del Novecento. La camera bassa della Duma, il parlamento russo, ha approvato una dichiarazione nella quale si afferma che il massacro di 22mila ufficiali polacchi a Katyn, nel 1940, fu ordinato da Stalin. Da parte di Mosca c'erano state già negli anni progressive aperture sulla vicenda, ma quella di ieri viene considerata da molti la prima ammissione ufficiale senza equivoci delle responsabilità del regime sovietico di quell'eccidio. Il 10 aprile di quest'anno, tra l'altro, il presidente polacco, Lech Kaczynski, è morto nello schianto dell'aereo della delegazione governativa diretta a Smolensk, nei pressi di Katyn, per una commemorazione del massacro. Quella cerimonia avrebbe dovuto segnare anche una riappacificazione con Mosca.

«Tutti i documenti pubblicati che per molti anni sono rimasti negli archivi segreti non solo rivelano questa orribile tragedia, ma testimoniano che il massacro di Katyn è stato compiuto su ordine diretto di Stalin e di altri dirigenti sovietici», si legge nella dichiarazione intitolata "La tragedia di Katyn e le sue vittime", approvata con 352 voti a favore e 57 contrari. «Nella propaganda ufficiale sovietica - prosegue il documento - la responsabilità per questo crimine è sempre stata attribuita ai delinquenti nazisti. Questa versione per molti anni è rimasta tema di discussione della società sovietica provocando sempre la rabbia, l'offesa e la sfiducia del popolo polacco». «Il parlamento - conclude la nota - esprime la sua profonda compassione a tutte le vittime di questa repressione ingiustificata e ai loro familiari».

L'eccidio di Katyn, non lontano dal confine con la Bielorussia, si consumò nel 1940, poco dopo l'invasione della Polonia orientale da parte dell'Urss, in base alle clausole segrete del patto Molotov-Ribbentrop di non aggressione con la Germania. Per decenni l'Unione sovietica ha accusato i nazisti di aver commesso il massacro. Fu solo nel 1990 che Mikhail Gorbaciov riconobbe la responsabilità del suo paese nel massacro. Nel tentativo di rilanciare le relazioni con Varsavia, il Cremlino ha poi fatto mettere in rete quest'anno dei documenti sulla tragedia e la giustizia russa ha consegnato alla Polonia decine di volumi dagli archivi segreti.

La Russia prova dunque a chiudere definitivamente con quel passato che finora ha pesato sui suoi rapporti con la Polonia. In quest'ottica rientra la campagna di destalinizzazione che il presidente Dmitrij Medvedev si prepara a lanciare per ricordare ai cittadini i crimini commessi da Stalin. Secondo alcuni analisti si tratterebbe peraltro dell'ennesimo tentativo di smarcarsi dal premier Vladimir Putin, che pure ammise i crimini commessi dal dittatore, ma in maniera meno netta. Il tutto, naturalmente, in vista delle elezioni presidenziali del 2012.

Fonte > Il Sole 24 Ore

domenica 4 aprile 2010

È morto il marito della santa pediatra

LA PROCLAMAZIONE FU DECISA NEL 2004 DA GIOVANNI PAOLO II

È morto il marito della santa pediatra

Pietro Molla fu il compagno di vita di Gianna Beretta,
la donna che rinunciò alle cure per far nascere sua figlia

Santa Gianna Beretta Molla
Santa Gianna Beretta Molla
MILANO
- Si è spento sabato all'1.30 di notte l'ingegner Pietro Molla, 98 anni, il marito di santa Gianna Beretta Molla, la pediatra di Magenta che nel 1962 rinunciò alle cure per permettere la nascita della sua quarta figlia, Gianna Emanuela. Per questi ed altri meriti, Giovanni Paolo II nel 2004 la proclamò santa. Oggi in suo onore è nato a Mesero, il piccolo centro del Milanese dove lei aveva l'ambulatorio, il santuario della famiglia che porta il suo nome. Alla cerimonia in San Pietro nel 2004 erano presenti il marito Pietro e i tre figli, Pierluigi, Laura e Gianna Emanuela. L'altra sorella, Mariolina, era morta in tenera età. La canonizzazione di sua moglie fu uno degli ultimi eventi a cui Pietro Molla partecipò. Da anni viveva nella casa di Mesero con sua figlia Gianna.

«UN GRANDE AMORE» - Pietro e Gianna s'incontrarono nel 1954 e non si separarono più. Pietro all'epoca lavorava come dirigente alla "Saffa", la fabbrica di fiammiferi di Magenta. Nel 1955 il matrimonio. Durante il fidanzamento i due si scrivevano lunghe lettere che già lasciavano intravedere l'immensa fede di Gianna e il suo spessore spirituale. Queste lettere oggi sono pubblicate sul sito che porta il suo nome. Uomo riservato, a chi gli chiedeva di Gianna l'ingegner Molla diceva che lei era una donna come tutte le altre, con cui condivideva l'amore per la musica classica, le escursioni in montagna, i viaggi all'estero. «Non mi sono mai accorto di vivere con una santa» aveva spesso ricordato durante le interviste che raramente concedeva. L'ultima al Corriere della Sera nel 2002

Giovanna Maria Fagnani
03 aprile 2010

giovedì 11 marzo 2010

“Brescia: la nuova chiesa parrocchiale di Padergnone è un Tempio massonico- satanico!”

Lettera
di Mons. Ivo Panteghini
principale responsabile del progetto del Tempio massonico-satanico
di Padergnone (Rodengo Saiano - Brescia)

In data 21.10.2009, a seguito della distribuzione del Numero
Speciale di “Chiesa viva” 420 che riportava il titolo: “Brescia:
la nuova chiesa parrocchiale di Padergnone è un Tempio massonico-
satanico!”, ho ricevuto una lettera da Mons. Ivo Panteghini,
esperto d’arte e liturgia della Curia di Brescia, e principale
responsabile del progetto di questa nuova chiesa.
Ecco il testo, così come mi è pervenuto:

mercoledì 3 marzo 2010

Se un esorcista in Vaticano ha molto da fare


di Paolo Rodari,
da Palazzo Apostolico (25/02/2010)


Satanisti in Vaticano? “Sì, anche in Vaticano ci sono membri di sètte sataniche”. E chi vi è coinvolto? Si tratta di preti o di semplici laici? “Ci sono preti, monsignori e anche cardinali!”. Mi perdoni, don Gabriele, ma Lei come lo sa? “Lo so dalle persone che me l’hanno potuto riferire perché hanno avuto modo di saperlo direttamente. Ed è una cosa confessata più volte dal demonio stesso sotto obbedienza durante gli esorcismi”. Il Papa ne è informato? “Certo che ne è stato informato! Ma fa quello che può. È una cosa agghiacciante. Tenga presente poi che Benedetto XVI è un Papa tedesco, viene da una nazione decisamente avversa a queste cose. In Germania infatti praticamente non ci sono esorcisti, eppure il Papa ci crede: ho avuto occasione di parlare con lui tre volte, quando ancora era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Altroché se ci crede! E ne ha parlato esplicitamente in pubblico parecchie volte. Ci ha ricevuto, come associazione di esorcisti, ha fatto anche un bel discorso, incoraggiandoci e elogiando il nostro apostolato. E non dimentichiamo che del diavolo e dell’esorcismo moltissimo ne ha parlato anche Giovanni Paolo II”. Allora è vero quello che diceva Paolo VI: che il fumo di Satana è entrato nella chiesa? “È vero, purtroppo, perché anche nella chiesa ci sono adepti alle sètte sataniche. Questo particolare del «fumo di Satana» lo riferì Paolo VI il 29 giugno 1972. Poi, siccome questa frase ha creato uno scandalo enorme, il 15 novembre dello stesso 1972 ha dedicato tutto un discorso del mercoledì al demonio, con frasi fortissime. Certo, ha rotto il ghiaccio, sollevando un velo di silenzio e censura che durava da troppo tempo, però non ha avuto conseguenze pratiche. Ci voleva uno come me, che non valeva niente, per spargere l’allarme, per ottenere conseguenze pratiche”.

Padre Gabriele Amorth è oggi uno dei più grandi esorcisti a livello internazionale. Svolge il proprio incarico nella città di Roma. Nelle sue memorie raccolte da Marco Tosatti in Padre Amorth. Memorie di un esorcista. La mia vita in lotta contro Satana (Piemme) è anzitutto una denuncia alla chiesa che intende fare. Alla chiesa e ai suoi vescovi: “Abbiamo moltissimi preti e molti vescovi che purtroppo non credono a Satana”, dice. E ancora: “Ci sono nazioni intere senza esorcisti: la Germania, l’Austria, la Svizzera, la Spagna, il Portogallo… Molti vescovi non credono nel demonio e arrivano addirittura a dire in pubblico: l’inferno non esiste, il demonio non esiste. Eppure Gesù nel Vangelo ne parla abbondantemente per cui verrebbe da dirsi, o non hanno mai letto il Vangelo o non ci credono proprio!”.

Molti vescovi non credono nel demonio, dunque. E, infatti, la battaglia di padre Amorth è su due fronti: contro l’avversario di sempre e contro il silenzio o l’incredulità della chiesa: “Il codice di diritto canonico dice che gli esorcisti dovrebbero essere scelti fra il fior fiore del clero”, spiega. E, invece, non avviene così. Spesso i migliori sacerdoti sono destinati dai vescovi ad altri incarichi. E quei pochi esorcisti che ci sono hanno poca esperienza. Dovrebbe essere l’opposto. Per tutti dovrebbe verificarsi quanto capitò a don Amorth: il cardinale Ugo Poletti lo affiancò a padre Candido Amantini che da quaranta anni era esorcista alla Scala Santa. Dice don Amorth: “Devo a lui tutto quello che so”. Racconta ancora don Amorth: “Ci sono vari episodi che mi raccontava padre Candido. Un giorno un sacerdote gli disse chiaramente che non credeva a nulla di tutto questo: demonio, esorcismi e così via. Padre Candido replicò: venga una volta ad assistere. Padre Candido raccontò che questo sacerdote stava con le mani in tasca, in piedi; alla Scala Santa gli esorcismi li fanno in sacrestia, e lui stava lì, con un’aria quasi di disprezzo. A un certo punto il demonio si è rivolto a lui e gli ha detto: tu non credi a me ma alle femmine ci credi, eccome se ci credi nelle femmine. Il sacerdote, camminando all’indietro, tutto vergognoso, ha raggiunto la porta ed è filato via”.

Don Amorth riceve nel suo studio centinaia di persone all’anno. Di queste soltanto poche sono davvero possedute. La maggior parte ha semplicemente gravi problemi psichici e psichiatrici. Ma i posseduti ci sono. Si presentano da don Amorth per essere liberati. Lo fanno spontaneamente seppure la “presenza” che si è impossessata del loro corpo faccia di tutto perché gli esorcismi non abbiano effetto.

Come avviene la possessione? La maggior parte della gente rimane posseduta dopo aver partecipato a messe nere o a riti satanici. Dice don Amorth: “La principale caratteristica delle messe nere è che c’è il disprezzo dell’eucaristia. Nella vera messa nera c’è una donna nuda che fa da altare, e che dovrebbe essere vergine, e viene violentata da quello che fa da sacerdote e poi da tutti gli altri, dopodiché fra di loro succede di tutto. Ossia diventa un vero bordello. Per cui molti alla messa nera ci vanno per il ‘dopo’, per il bordello”.

Don Amorth ha un metodo – che a volte riesce altre no – per riconoscere se una persona è davvero posseduta: l’acqua benedetta. Ne parla raccontando di una donna che gli chiese di essere esorcizzata. Don Amorth non sapeva se si trattava davvero di una possessione. Così preparò sul tavolo due bicchieri, uno con acqua comune e uno con acqua benedetta: “Le offersi da bere l’acqua comune; mi ringraziò e bevve. Alcuni minuti dopo le porsi l’altro bicchiere, con l’acqua benedetta. La bevve, ma questa volta il suo aspetto cambiò di colpo: da bimba impaurita a persona in collera. Scandendo le parole con timbro di voce basso e forte, come se un uomo parlasse dentro di lei, mi disse: ‘Ti credi furbo, prete!’. Ebbe così inizio la preghiera di esorcismo e solo un’ora dopo, compiuto il rito, avvenne la liberazione in chiesa”.
mdeledda

sabato 27 febbraio 2010

Senza divieti non c'è libertà


Come si forma una personalità responsabile

di Rocco Buttiglione

Pontificia Accademia delle Scienze Sociali

Si moltiplicano meritoriamente le iniziative di riflessione sul tema della emergenza educativa e a esse si è aggiunta di recente una importante ricerca del progetto culturale della Conferenza episcopale italiana (Cei) con il titolo suggestivo "La sfida educativa". A me sembra che al centro della riflessione sul tema si debba mettere una citazione di Benedetto XVI: "L'educazione ben riuscita è formazione al retto uso della libertà".
L'emergenza educativa del tempo nostro consiste appunto nella difficoltà che famiglia e scuola incontrano nell'educare alla libertà, nel formare uomini liberi. Per capire la portata del problema bisogna prima di tutto battere un pregiudizio corrente: che per educare alla libertà basti togliere ogni vincolo e abbandonare il giovane al semplice sviluppo naturale delle sue passioni. Da Rousseau in poi questo naturalismo è il pròton psèudos (l'"errore originario") della pedagogia moderna. A scavare un poco più a fondo non è difficile scoprire dietro questo errore la negazione senza prove della dottrina cristiana del peccato originale. Si afferma una originaria bontà dell'istinto. L'istinto è sempre buono e non ha bisogno di essere guidato dalla ragione. E anche se di tale guida avesse bisogno tale guida si svolge naturalmente, senza dovere esercitare alcuno sforzo per vincere una resistenza. San Tommaso pensava invece che esistesse una tendenza della natura corrotta dal peccato a opporsi ai dettami della retta ragione: è il peso della concupiscenza. Per correggerlo è necessario lo sforzo consapevole della volontà e anche un altro e diverso peso che viene a orientare la volontà, il pondus amoris, il peso dell'amore. Già sant'Agostino del resto scriveva: amor meus pondus meum ("è il mio amore il peso che mi trascina"). L'amore di Dio mi trascina verso la verità e il bene, l'amore sregolato di me stesso e del mondo verso la menzogna e il male. La pedagogia emancipatoria e permissiva del nostro tempo ha volutamente ignorato questa struttura antropologica dell'essere umano. L'intenzione era quella di realizzare un uomo liberato. I risultati sono stati invece assai lontani dalle promesse iniziali.
In realtà, il giovane guarda con preoccupazione, sgomento e paura a quel fascio di domande, di esigenze, di desideri che si sviluppa dentro di lui. Istintivamente egli capisce quanto queste pulsioni siano contraddittorie tra di loro e potenzialmente distruttive. In che modo ricondurle a unità e impedire che la persona sia lacerata dalle loro contraddizioni? Più esattamente in che modo ottenere che la persona riesca a emergere, che riesca a formare se stessa a partire da questo insieme di desideri e di esigenze? La libertà dell'uomo non è la libertà dell'istinto. È a partire da una immagine del vero bene della persona che è possibile selezionare, ordinare, organizzare le strutture interiori di un essere umano intelligente e libero. Antonio Rosmini ci ha lasciato una critica perfetta del naturalismo che parte dalla osservazione che i desideri sono capricciosi, variabili e in continua contraddizione l'uno con l'altro. Abbiamo più desideri che non energie per realizzarli. Per di più alcuni desideri per la loro intima struttura ne contraddicono altri. Ha scritto una volta Sigmund Freud (il vero, anche se mal compreso, critico del naturalismo) che se i nostri desideri fossero cavalli, molti sarebbero attaccati alle bare dei nostri migliori amici. Proprio così: il desiderio ignora la valutazione delle conseguenze e la scansione temporale. Il bambino che piange contro la madre la vorrebbe morta. Certo, se la uccidesse passerebbe poi tutta la vita a piangere su se stesso. Il desiderio ignora anche il principio di non contraddizione. Nell'esempio precedente il bambino la madre la vorrebbe insieme viva e morta.
Per capire ciò che vogliamo veramente dobbiamo imparare a sottoporre il desiderio immediato al giudizio della ragione. Dobbiamo selezionare fra i tanti desideri alcuni che vogliamo realizzare veramente e concentrare su di essi l'energia della vita che si chiama lavoro. Come è possibile gerarchizzare gli impulsi istintuali e ordinarli dentro un'ipotesi di personalità coerente? È solo alla luce della verità sul bene della persona che questa operazione di gerarchizzazione degli istinti e di unificazione della persona diventa possibile. La mentalità corrente dà un valore molto elevato alla spontaneità. C'è in questo qualcosa di vero, specie come reazione a una pedagogia autoritaria e costrittiva di una fase storica precedente capace più di generare ipocrisia che una vera adesione al bene. Bisogna tuttavia stare attenti a non fare della spontaneità un idolo. Molte volte la scelta spontanea compiuta obbedendo a un impulso irriflesso e non educato è anche una scelta sbagliata e distruttiva per la persona.
Tutto questo non è possibile senza due fattori fondamentali del processo educativo che oggi vengono sistematicamente ignorati. Il primo è l'ascesi. Ascesi è capacità di dire di no, di resistere alla violenza con la quale l'impulso domanda di essere soddisfatto immediatamente senza una riflessione che si interroghi sul fatto se esso corrisponda alla verità e al vero bene della persona. Il permissivismo contemporaneo ha diffamato l'ascesi identificandola con la "repressione". L'ascesi implica certo la forza di reprimere l'istinto ma implica anche la capacità di dare alla energia proveniente dall'istinto una forma nuova, corrispondente alla verità della persona.
Senza ascesi non c'è educazione della persona. La forza necessaria per l'ascesi ha bisogno però di essere mobilitata dalla esperienza di un positivo, dalla percezione di un valore per il quale vale la pena di affrontare la fatica e la frustrazione anche dell'ascesi. L'ascesi non è solo repressione perché essa indica alla energia pulsionale una modalità di soddisfacimento alternativa, giusta per l'uomo. Ciò che è bene per l'uomo, però, nel processo educativo non può essere il semplice risultato di una ricerca intellettuale individuale. Il bene affascina e convince se lo si incontra in una esperienza umana vivente. C'è bisogno della esperienza dell'autorità. L'autorità è la presenza del valore in una persona che gli rende testimonianza, lo rende più direttamente e facilmente percepibile per altri. L'autorità è guida nel percorso verso l'esperienza del valore. Senza ascesi e senza autorità non c'è esperienza educativa. L'autorità trasmette l'esperienza dei valori perché essa possa essere messa alla prova nella vita dal discepolo. Il discepolo non ripeterà servilmente questa esperienza così come si è realizzata nella vita del maestro. La confronterà piuttosto con le proprie esperienze e la filtrerà attraverso di esse rivivendola così e facendola propria. In questo processo continuo di trasmissione e verifica critica la tradizione di una cultura cresce e si rinnova nel tempo.
Cosa succede in una cultura che ha diffamato l'ascesi e screditato l'autorità? Lo ha descritto molto bene Erich Fromm in un libro un tempo famoso intitolato Fuga dalla libertà. Il giovane che ha paura dei suoi impulsi e della propria incapacità di controllarli e di disciplinarli accetta di dipendere dal potere della opinione dominante nel suo ambiente. Invece di sviluppare un pensiero critico proprio si arrende a ciò che si dice, a ciò che vuole chi ha il controllo dei mezzi di comunicazione di massa. Herbert Marcuse ha parlato di de sublimazione repressiva. La società permissiva offre al giovane molte modalità di soddisfazione immediata dell'istinto ma proprio in questo modo rende più difficile la formazione di una personalità libera, capace di stabilire un suo proprio rapporto con la verità e di fare di tale rapporto la guida della propria costruzione sociale. L'educazione "tradizionale" invitava a lottare per controllare le proprie passioni, a ricercare la verità, a orientare le passioni secondo la verità e verso la verità. L'uomo diventa libero quando riconosce la verità. L'obbedienza alla verità libera l'uomo dalla tirannia delle opinioni dominanti e anche dalla soggezione verso gli uomini. Temere Dio è regnare. Chi teme Dio non ha paura degli uomini.
Egualmente l'obbedienza alla verità libera dalla soggezione verso le proprie passioni. Obbedienza alla pressione delle passioni e obbedienza al potere sociale esterno possono opporsi fra loro, come è accaduto spesso nel passato. Oggi accade il contrario. Il potere sociale si allea con le passioni dell'anima per impedire che si formi una personalità responsabile e libera, per creare una massa liberamente manipolabile da chi ha potere.
Questo è il problema della educazione nel tempo nostro.
C'è la libertà dell'istinto e c'è la libertà della persona. La libertà della persona suppone che il soggetto sia diventato capace di dominare il proprio istinto e sia diventato in tal modo padrone di se stesso. L'uomo che non diventa padrone di se stesso attraverso l'ascesi finisce con il sentire la libertà dell'istinto come un fardello insopportabile, non si orienta nei conflitti che sorgono inevitabilmente fra le diverse possibili mete istintuali e finisce con il consegnare volentieri la propria libertà al potere sociale dominante. L'uomo che chiede solo soddisfazione immediata alle sue pulsioni si consegna inevitabilmente a chi quella soddisfazione è in grado di dare, diventa infinitamente manipolabile. L'uomo appartiene a chi è in grado di dargli panem et circenses. La soddisfazione allucinatoria del desiderio attraverso lo spettacolo televisivo sostituisce lo sforzo per realizzare davvero le proprie esigenze vere.
Il punto di arrivo di buona parte delle moderne tendenze "decostruzioniste" è proprio la decostruzione dell'io e l'abolizione della personalità cosciente. Per ricostruire l'educazione bisogna ripartire da testimoni autorevoli - non dovrebbero essere prima di tutto questo i genitori e gli educatori? - che siano capaci di indicare senza ambiguità il percorso di una ascesi che rende capaci di verità, che permette di avviarsi sul cammino della ricerca della verità.


venerdì 26 febbraio 2010

la Repubblica: la corazzata nichilista - di Francesco Agnoli




Breve storia del gruppo editoriale Repubblica-Espresso e del suo fondatore: Eugenio Scalfari. Un progetto culturale che non lascia spazio a Dio e che viene da lontano. Da non trascurare i contatti con la Massoneria.


[Da «il Timone» n. 78, dicembre 2008]

Esiste un gruppo editoriale, in Italia, che ha plasmato e continua a plasmare buona parte della cultura del paese. Mi riferisco all’editore
L’espresso, che possiede il quotidiano Repubblica (il secondo più venduto in Italia dopo il Corriere della Sera), il settimanale L’espresso e altri 15 quotidiani locali (oltre a due mensili, due trimestrali, tre emittenti radiofoniche nazionali, l’emittente nazionale All Music...). Un vero impero mediatico, insomma, rispetto a cui la stampa cattolica, cosi povera e divisa, fa una assai magra figura.

Tra i giornalisti di spicco che vi collaborano troviamo Umberto Eco, l’autore del celebre romanzo
Il Nome della rosa; Natalia Aspesi e Miriam Mafai, vestali del pensiero nichilista al femminile; Aldo Schiavone, ex direttore dell’Istituto Gramsci, che oggi immagina un futuro in cui ha tecnica sconfiggerà la morte e disgregherà finalmente la famiglia tradizionale; Umberto Veronesi, il famoso oncologo che si dedica soprattutto alla difesa dell’evoluzionismo materialista e della clonazione terapeutica e riproduttiva; Corrado Augias, autore di due pubblicizzatissimi libri in cui, senza conoscenza alcuna di esegesi biblica e di filologia, cerca di spiegare al credulone di turno che Cristo non è veramente risorto, e che il Cristianesimo è in realtà un «costantinismo», cioè una «religione civile» forgiata dall’imperatore Costantino per fini politici e di potere; Umberto Galimberti, di cui recentemente si è scoperta l’attitudine a copiare libri altrui, che ha caro il concetto per cui la tecnica sconfiggerà ed eliminerà la religione; il presentatore televisivo Gad Lerner, anch’egli omogeneo alla cultura anticattolica dominante nelle elite, e tanti altri opinionisti che hanno fatto della lotta alle radici cristiane dell’Italia il loro principale obiettivo.

All’origine di questa potentissima corazzata ideologica che ha sostenuto le campagne a favore del divorzio e dell’aborto, e che ora promuove il testamento biologico, oltre che ogni altro cambiamento di costume che vada in una ben precisa direzione, c’è una operazione culturale ben precisa, portata avanti dalla grande finanza laicista del nostro paese, che data a partire dal 1955, quando appunto venne creata la società editrice
L’espresso, con Adriano Olivetti come principale azionista. Il 1955 è, non a caso, l’anno di nascita anche del Partito radicale, da una costola del Partito liberale italiano, erede a sua volta di quella borghesia elitaria che aveva (mal) fatto l’unità d’Italia. La storia dell’Espresso e poi di Repubblica, nata nel 1976, è strettamente legata alla figura di Eugenio Scalfari, primo direttore e vero padre ideale del suddetto quotidiano.

Chi e Eugenio Scalfari? Nel suo
Scalfari, una vita per il potere, il noto giornalista Giancarlo Perna ricorda che il giovane Eugenio fu un membro del Guf fascista, che esordì come giornalista su Roma fascista, dimostrando una forte passione per il duce, lo stato etico, l’impero, la guerra. Perna ci dice anche che «Scalfari-padre era massone. Una tradizione di famiglia. Il capostipite fu don Antonio, che, a cavallo tra il Sette e l’Ottocento, fondô la Loggia della Calabria uniforme […] Eugenio ha i ritratti degli avi che indossarono il grembiulino appesi nella sua villa di campagna, a Velletri. Su ognuno c’è l’emblema rnassonico scalfariano: uno scudetto a due campi: uno con la scure e l’altro con il ponte […]. Con la caduta del fascismo […] Pietro (padre di Eugenio) fu tra i fondatori della loggia locale».

Ma per comprendere meglio la storia di questo celebre giornalista, occorre leggere il suo ultimo libro,
L’uomo che non credeva in Dio (Einaudi, 2008), in cui l’autore rievoca «il laicismo massonico» del padre, la propria «infanzia solitaria», nutrita di «tristezza» e «malinconia», e la propria cupa e disperata visione dell’esistenza. Per Scalfari ogni uomo è solamente una delle «forme che la natura casualmente produce», un insieme di «cellule neuronali» casualmente connesse e intrecciate tra loro, gettate, quasi per uno scherzo maligno, «nel caos di una vita ancora tutta da inventare».

La domanda di senso, scrive Scalfari, «è il tema dominante della nostra specie»: «il filo d’erba vive ma non si pensa e così la farfalla, gli uccelli, il serpente... la vita dell’universo non ha bisogno di senso. Noi ne abbiamo bisogno, la nostra specie ne ha bisogno».
Ma la verità è che questo senso non esiste, che il lungo interrogarsi dell’uomo non porta a nulla ed egli rimane «un animale tra i tanti, una forma tra le innumerevoli forme», segnata però da un io, una coscienza, una personalità distinta, unica e irripetibile, che non è assolutamente un segno della nostra natura spirituale, bensì una condanna, un errore, «una superstizione», una «maschera», una «gabbia», un «capriccioso dittatore»... Meglio sarebbe annullarsi in una natura panteisticamente intesa, «distruggere l’Io», come propongono le religioni orientali. Distrutto l’io, evidentemente, anche l’esigenza di un Dio trascendente, personale, creatore, che sia il senso della vita, scompare, ed insieme a lui perisce anche l’idea di una morale oggettiva, segno della nostra libertà e della nostra grandezza. L’uomo, per Scalfari, come per tutti gli evoluzionisti materialisti, non è libero, non sceglie tra il bene e il male, non aspira alla Giustizia e alla Verità: semplicemente agisce spinto dall’«istinto di sopravvivenza», e null’altro, esattamente come gli altri animali. Perché Socrate è morto per la giustizia? Perché Cristo ha dato la sua vita per gli altri? Perché un uomo può donare tutte le sue ricchezze a poveri che neppure conosce? Non certo per una libera scelta, per la nostra natura spirituale. «Chi mette a rischio la propria vita, scrive, per salvare qualcuno che sta annegando o per difendere un debole […] non obbedisce a concetti ma agisce sotto la spinta emotiva di pulsioni e di istinti» animali, impersonali, oscuri. Ecco perché ciò che ci muove non può essere l’amore, l’altruismo, il desiderio di santità. Ma solo «la volontà di potenza», quella stessa volontà che Scalfari, come giornalista, afferma di sentire fortemente nella propria vita, nel momento in cui scrive di altri, giudica tutti, si pone al di sopra di ogni cosa.

Oggi Scalfari non è più direttore di
Repubblica, ma scrive ogni settimana la sua interminabile «predica» domenicale. L’impostazione del giornale rimane infatti quella delle origini. A garantirla un editore come Carlo De Benedetti, che, come racconta Ferruccio Pinotti, in un suo studio molto documentato, benché a tratti un po’ ingenuo, Fratelli d’Italia (Rizzoli), «risulta essere entrato nella massoneria a Torino, nella loggia Cavour del Grande Oriente d’Italia, regolarizzato nel grado di Maestro, il 18 marzo 1975».

Bibliografia

Eugenio Scalfari,
L’uomo che non credeva in Dio, Einaudi, 2008.
Giancarlo Perna,
Eugenio Scalfari, una vita per il potere, Leonardo, 1990.
AA. VV.,
Il modello neoborghese: lo «Scalfarismo», in Studi cattolici, nn. 329-30, 332, 333 (1989).

Ricorda

«L’impegno politico diretto — anche Eugenio Scalfari è stato, per un certo tempo parlamentare socialista — è stato sostituito da un’azione che, presentandosi come culturale, è in realtà di mobilitazione e di pressione sull’opinione pubblica.
Lo “scalfarismo” che attraversa diversi partiti si pone oggi come un “superpartito”, come lobby. Ne consegue che l’incidenza più importante dello “scalfarismo” non è sulle situazioni politiche immediate, bensì sui comportamenti della gente, attraverso l’imposizione di un modello neoborghese.
Lo “scalfarismo”, che da sempre ha avuto appoggi ed ha esercitato pressioni negli ambienti economici, è oggi meno legato all’industria che non ai settori della grande finanza».
(Cesare Cavalleri,
Presentazione del Quaderno Il modello neoborghese: lo «Scalfarismo», in Studi cattolici, n. 329-30, p. 454).

© il Timone
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sabato 20 febbraio 2010

Crocifisso nelle scuole: ricorso contro sentenza Corte europea diritti dell'uomo


Il ricorso alla Grande Camera

Il Governo italiano, in data 29 gennaio 2010, ha depositato ricorso alla Grande Camera per il riesame della decisione del 3 novembre 2009 (caso Lautsi contro Italia - ricorso n° 30814/06) con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto che l’esposizione del crocifisso nelle aule della scuola pubblica concretizzi violazione dell’articolo 2, del Protocollo 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (diritto all’istruzione), valutato congiuntamente con l’articolo 9, che tutela la libertà di pensiero, coscienza e religione.

Come è stato ampiamente pubblicizzato dai media, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto un dovere dello Stato quello alla neutralità confessionale, con ricaduta espressa nel campo dell’educazione pubblica obbligatoria, ove la presenza ai corsi è richiesta indipendentemente dal credo religioso ed è mirata alla formazione di un pensiero critico nel discente. La decisione risulta aver creato perplessità e sconcerto, non solo in Italia.

Secondo la Corte, l’obbligo all’esposizione del simbolo della confessione cristiana limita non solo il diritto dei genitori ad educare secondo le loro convinzioni i figli, ma anche il diritto degli alunni di credere in altre confessioni o di non credere affatto.

Con il ricorso, il Governo italiano ha dubitato della decisione, come corretta interpretazione ed applicazione della Convenzione, per la libertà riconosciuta dalla giurisprudenza europea alla regolamentazione nazionale sulle questioni religiose. E’ stata rilevata l’inesistenza di una interpretazione condivisa del principio di laicità dello Stato.

La pronuncia è stata considerata contrastante con la giurisprudenza della stessa Corte in materia (decisione Leyla Sahin contro Turchia del 10 novembre 2005).
Inoltre, ricordate le persistenti difficoltà interpretative a livello europeo circa le implicazioni concrete derivanti dall’applicazione del principio di laicità dello Stato, si è fatto riferimento al margine di apprezzamento riconosciuto ai singoli Stati, in considerazione delle differenze di approccio al tema religioso.

Un ulteriore motivo di censura ha, poi, riguardato l’interpretazione del concetto di neutralità confessionale dello Stato che, secondo il Governo italiano, non si risolve nell’adozione di un atteggiamento agnostico o ateo, ma implica lo sforzo volto a conciliare al meglio le differenze religiose.

Il Governo ha sottolineato, inoltre, che la tesi accolta dalla Corte - secondo cui l’esposizione del crocifisso in aula può rivelarsi incoraggiante per alcuni allievi che a quella religione aderiscono, ma emotivamente “inquietante” per allievi che professano altre religioni o che non ne professano alcuna - finisce per riconoscere un diritto alla protezione di sensibilità più o meno soggettive con relativa, grave incertezza giuridica.

A completamento dei motivi si è evidenziato un travisamento dei fatti in cui sarebbe incorsa Corte, attribuendo la scelta di esporre il crocifisso alla direzione della scuola, mentre, nel caso di specie, si era trattato di un obbligo giuridico previsto dalla normativa nazionale e solo confermato o rafforzato da una conforme votazione all’interno delle istituzioni scolastiche all’esito di uno specifico dibattito.

Ove un apposito collegio di cinque giudici della Corte ritenesse di rinviare il caso alla Grande Camera, quest’ultima costituita da diciassette giudici e composta di diritto dal presidente, dai vice-presidenti della Corte ed i presidenti di sezione, oltre, fra gli altri, al giudice italiano, potrebbe decidere nei prossimi mesi, riesaminando il caso alla luce dei rilievi del Governo.

(Sintesi del ricorso a cura del dott. Corrado Bile, magistrato addetto in qualità di esperto al Dipartimento Affari Giuridici e Legislativi della Presidenza del Consiglio dei Ministri)

Ulteriori informazioni su: http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/crocifisso_sentenza/ricorso.html

La Madonna sconvolge gli intellettuali




Nella mentalità moderna, imbevuta di ideologia, quando i fatti disturbano le opinioni, tanto peggio per i fatti. Non a caso sta facendo discutere di più, oggi, sui giornali, il film su Lourdes di Jessica Hausner, nel quale la regista esprime le sue opinioni incerte sui miracoli, di quanto facciano discutere le effettive guarigioni miracolose che lì si verificano.

Una delle quali – non ancora riconosciuta perché la Chiesa esige lunghe verifiche medico-scientifiche – è stata resa nota l’agosto scorso.

La signora Antonietta Raco, 50 anni, di Francavilla in Sinni (Potenza), malata da quattro anni di sclerosi laterale amiotrofica (SLA) – una malattia terribile – è andata in pellegrinaggio a Lourdes sulla carrozzella, dove era ormai immobilizzata, ed è tornata a casa camminando normalmente con le sue gambe.

Cosa le è accaduto? A Lourdes si era immersa nella piscina dell’acqua di Bernadette e aveva sentito un forte dolore alle gambe e poi una voce di donna che le diceva: “Non avere paura”. Di colpo è guarita. Quella stessa voce è tornata per invitarla a far sapere a suo marito cosa le è successo.

“Non è spiegabile con i mezzi di cui scientificamente dispongo”, così il neurologo Adriano Chiò delle Molinette di Torino, che aveva in cura la signora dal 2006, commentava il caso con i giornali. In effetti nella letteratura scientifica non esiste un caso simile.

Il medico ha spiegato: “Non ho mai osservato una situazione del genere in malati di Sla. La diagnosi era inequivocabile: la signora aveva una forma di Sla a lenta evoluzione. Una malattia che può rallentare e al massimo fermarsi, ma che non crediamo possibile che migliori, perché intacca i neuroni irreversibilmente”.

Invece l’impossibile pare sia accaduto. Di fronte a un’altra guarigione analoga, riguardante Marie Bailly, una ventenne di Bordeaux – che lui aveva conosciuto e analizzato come medico – nel 1903, il positivista e scettico Alexis Carrel (1873-1944), poi Premio Nobel per la medicina a soli 39 anni, andando a Lourdes rivide tutte le sue convinzioni e si convertì al cattolicesimo (racconta tutto nel suo memorabile “Viaggio a Lourdes”). Prima era certo che i miracoli non accadessero. Davanti al fatto si arrese. Carrel rispose lealmente a chi lo interrogava: “Bisogna constatare i fatti”.

Ma molti razionalisti preferiscono tapparsi gli occhi e ripararsi dietro i comodi pregiudizi. Emblematico è il caso di un altro importante intellettuale francese di quegli anni, il laico Emile Zola.

Nella Francia positivista di fine Ottocento si faceva un gran parlare di Lourdes e delle straordinarie guarigioni che lì avvenivano, perché mettevano in scacco la cultura dominante che nega il soprannaturale e quindi la possibilità stessa del miracolo.

Lo scrittore dunque decise di recarsi di persona sul posto per smascherare tutto. Era armato di tutti i suoi pregiudizi: “non sono credente, non credo ai miracoli. Ma credo al bisogno del miracolo per l’uomo”. Secondo lui gli uomini hanno “necessità di essere ingannati e consolati”.

Il “caso” vuole che lo scrittore si trovi a viaggiare nello stesso vagone dove sono due ammalate di tubercolosi all’ultimo stadio, Marie Lebranchu e Marie Lemarchand.

Quando dunque il convoglio arriva a Lourdes, nella mattina del 20 agosto 1892, il famoso scrittore conosce bene le loro situazioni di fronte alle quali la medicina ormai aveva alzato le braccia in segno di resa.

Ebbene accadde a lui precisamente ciò poi accadrà a Carrel: a Lourdes lui stesso dovette constatare la guarigione istantanea, definitiva e scientificamente inspiegabile, proprio di quelle due donne.

Alla sua “sfida” il Cielo aveva risposto con dei fatti. Fatti clamorosi e innegabili, impossibili da cancellare o ignorare.

Tanto che Zola, nel suo libro, fu “costretto” a riferirne, ma invece di riconoscere la sconfitta dei suoi pregiudizi, invece di accogliere il dono che aveva ricevuto, la rivelazione di una verità totalmente inattesa e così misericordiosa, nel suo romanzo parla della vicenda “inventando la morte delle due ‘miracolate’, dopo una breve, illusoria guarigione.

E poiché” ha raccontato Vittorio Messori “una delle due donne risanate, e in modo definitivo, non si rassegnava al falso e protestava sui giornali, Zola andò a trovarla, offrendole denaro perché sparisse da Parigi…”.

E’ una storia emblematica. La cultura laica moderna lancia la “sfida”, ma poi non ha la lealtà di verificare la risposta, cioè i fatti. Naturalmente quel libro di Zola ebbe un gran successo ed è stato ristampato in Italia anche di recente.

“Zola (…) conoscerà un rinnovato successo presso il pubblico della Francia laica, rappresentando Lourdes come la capitale di una gigantesca intossicazione collettiva”, ha scritto domenica scorsa Sergio Luzzatto, sull’inserto culturale del Sole 24 ore.

Il suo articolo era addirittura la copertina. A tutta pagina campeggiava sotto il titolo “Miracoli di fede e scienza”. Questo lungo pezzo di Luzzatto si dilungava proprio a riferire il viaggio a Lourdes di Zola e il successo del suo libro.

Ma purtroppo non vi si accennava minimamente al retroscena suddetto, che poi è un clamoroso infortunio. Anzi, Luzzatto – evidentemente ignaro di questa storia – accredita il libro di Zola come un “meticoloso dossier” contro quell’ “industria del miracolo” che sarebbe Lourdes.

E’ significativo che sull’infortunio di Zola a Lourdes gravi ancora un simile tabù. Si rilegge oggi il suo libro come se queste cose non fossero accadute. La pagina del Sole offre anche alcune delle sue pagine dove i cristiani vengono rappresentati come sciocchi creduloni.

Zola, descrivendo le folle che accorrono a Lourdes, sente pure il bisogno di precisare (bontà sua) che “non sono solo dei cretini, degli illetterati, ma ci sono uomini come Lasserre”.

La cosa gli serve per dimostrare che questa “necessità di essere ingannati” dai presunti miracoli riguarda tutti. Ma chi ha veramente ingannato in questa vicenda?

Naturalmente il problema non è Zola, ma una mentalità – ancor oggi dominante – che in nome del realismo nega la realtà, in nome dello scientismo, nega la scienza e in nome del razionalismo nega la ragione.

Diversamente da quanto comunemente si crede, il razionalismo sta alla ragione come la polmonite sta al polmone. Ecco perché uno scrittore pieno di umorismo come Gilbert K. Chesterton, il grande convertito inglese, dirà a proposito delle diverse reazioni ai miracoli: “Chi crede ai miracoli lo fa perché ha delle prove a loro favore. Chi li nega è perché ha una teoria contraria ad essi”.

Bisogna però precisare che il confronto non è alla pari. La mentalità dominante è l’ideologia di un establishment che la fa da padrone nell’industria culturale. Non da oggi. Attenzione, non sono io a dirlo.

Luzzatto, che certamente è un laico alquanto lontano dalla Chiesa, nell’articolo sopra citato, a proposito della conversione di Alexis Carrel, seguita al verificarsi di quel miracolo, fa questa considerazione impressionante: “Immaginando che una testimonianza del genere sarebbe bastata a rovinargli la carriera universitaria, Carrel cercò di mantenere segrete sia la sua visita alla città dei miracoli, sia l’apposizione della sua firma nella cartella clinica della donna risanata. Ma le voci circolarono in fretta a Lione come a Parigi, e nel giro di pochi mesi egli si vide costretto a lasciare la Francia per l’America”.

Tale era il clima che Carrel, anche dopo aver preso il Nobel, non si decise a pubblicare il suo “Viaggio a Lourdes”, libro che uscì postumo: “tanto poteva allora, negli ambienti della ricerca internazionale” osserva Luzzatto “l’idea che una fede nella fede fosse incompatibile con la fede nella scienza”.

Non ha dunque ragione il papa, Benedetto XVI, quando parla di “dittatura del relativismo” ?

Antonio Socci

Da Libero, 19 febbraio 2010

lunedì 15 febbraio 2010

Lourdes - il Film della Hausner



IL COMMENTO LE SCENE SONO PLUMBEE, ANCHE NEL MOMENTO DELLA GUARIGIONE. EPPURE CHI CI È STATO SA CHE È IL REGNO DEL DOLORE MA ANCHE DELLA GIOIA

Il film dell' ex allieva delle suore che spegne le luci (e la fede) a Lourdes

Le immagini «atee» della Hausner riescono a depistare i clericali entusiasti Pellegrini e cappellani I pellegrini si spiano invidiosi, temendo la guarigione del vicino e non la propria e i cappellani replicano con slogan alle domande dei malati

La prospettiva di Jessica Hausner nel suo Lourdes è dichiarata subito, sin dalla scena iniziale, coll' inquadratura dall' alto della sala da pranzo per i pellegrini. Nessuna finestra, ma una luce artificiale fioca, su un ambiente claustrofobico: nero il pavimento, nere le pareti cui sono appesi crocifissi neri, nere le gonne e i pantaloni del personale, neri i mantelli delle hospitalières con la croce di Malta, nere le divise dei Cavalieri dell' Ordine, neri i clergyman dei preti. A quei tavoli funerei prende posto, in silenzio, una turba da corte dei miracoli di nani, paralitici, cancerosi, assistiti da volontari tanto formalmente educati quanto distratti o perplessi («che ci faccio, qui ?»), vivi solo nello scambio di sguardi tra ragazze col velo e giovanotti col basco. Poca, pochissima luce in tutto il film, la cui cifra cromatica è il plumbeo: nuvole nere nel cielo persino nelle pochissime scene all' aperto. Anche la benedizione eucaristica del pomeriggio - l' appuntamento quotidiano più amato dai pellegrini, assieme alla processione notturna con le fiaccole - non è girata, come è nel vero, sulla grande, luminosa Esplanade che fronteggia i tre santuari sovrapposti. No, la Hausner ha scelto di ambientarla nell' enorme chiesa sotterranea, dove non penetra alcuna luce. Poca luce pure per la lugubre festicciola finale. E buia, ovviamente, la scena topica della guarigione - miracolosa o casuale che sia - della tetraplegica venuta a Lourdes non per fede, ma per sfuggire dalla casa dove il male la imprigiona. Credo abbia visto bene la UAAR ,«Unione degli atei e degli agnostici razionalisti» nell' attribuire a questo film il suo beffardo premio intitolato a Brian, dal nome di una dissacrante pellicola su Gesù. Dicono, questi atei organizzati, che l' opera della Hausner potrà aiutare a perdere la fede «chi non è ancora approdato a una visione disincantata e scettica». Pure la Massoneria ha espresso il suo apprezzamento. Che dire, allora, del premio attribuito dagli uomini di cinema cattolici, riuniti in un' associazione riconosciuta ufficialmente dalla Santa Sede? Che dire della diocesi milanese che ha deciso di sponsorizzare quest' opera, diffondendola nelle parrocchie? Verrebbe in mente quanto mi disse un Umberto Eco ironicamente deluso, quando analoghi premi cattolici (uno, addirittura dalla Loyola University, l' ateneo dei gesuiti americani) furono attribuiti al film tratto dal suo «Il nome della rosa»: «Io ho faticato per fare un libro radicalmente agnostico se non ateo, sperando di suscitare un dibattito infuocato. E invece no, ' sti preti mi fregano , applaudendomi e riempiendomi di premi . Quasi quasi ho nostalgia dei bei, vecchi tempi della Santa Inquisizione. Quei tosti domenicani erano meno noiosi del frate e del sagrestano "adulti" che acclamano il miscredente». Ma sì, sarebbe facile sorridere del masochismo clericale, cui peraltro siamo ormai rassegnati. Qui, però, occorre forse riconoscere delle attenuanti. In effetti, a una prima lettura il film della regista austriaca (la solita ex cattolica: l' Occidente ne è ormai pieno) pare accattivante per i devoti. Non c' è nulla dell' anticlericalismo di un Emile Zola che si intrufolò, da anonimo, nel Pellegrinaggio Nazionale francese e ne trasse il suo fazioso romanzo, dove tutto inizia, per lui, da «une paure idiote», da una piccola isterica chiamata Bernadette. Nulla, qui, delle invettive delle Logge ottocentesche, che chiedevano la chiusura manu militari di Lourdes «per abuso della credulità pubblica», nonché per «ragioni igieniche». Il vecchio mangiapretismo vociferante ha fatto posto, nella Hausner, a un ateismo radicale, ma politically correct. E una simile negazione della fede - durissima nei contenuti, ma molto soft nei modi - può avere depistato i clericali entusiasti. L' ateismo, peraltro onestamente dichiarato nelle interviste, non sta tanto nella barzelletta del capo dei Cavalieri hospitaliers (la Madonna che vuole andare a Lourdes, perché non vi è mai stata), battuta un po' blasfema che svela l' incredulità di quei volontari. Non sta tanto nei dubbi dei pellegrini, nel loro spiarsi invidiosi, ciascuno temendo che il vicino di stanza sia guarito e lui no. E non sta neppure in quei cappellani che, alle domande dei malati, replicano con slogan, quasi fossero distributori automatici di risposte apologetiche. No, l' ateismo radicale del film sta nell' annuncio che il Cristianesimo è morto, perché proprio la cartina di tornasole di Lourdes rivela che sono morte le tre virtù teologali che lo sorreggevano: morta la Fede, morta la Speranza, morta anche la Carità, malgrado le apparenze di chi, come i volontari, sembra esercitarla. Ma per amore di sé, non dei bisognosi. Per sfuggire alla noia, per trovare un senso o un marito, più che per aiutare il prossimo. Papa Giovanni definì Lourdes, che molto amava, «una finestra che si è spalancata all' improvviso, mostrandoci il Cielo». La Hausner, quella finestra la chiude: da qui, la mancanza di luce, il senso di oppressione, la claustrofobia, il nero che segnano tutta la sua pellicola. Quel Cielo di Roncalli è ormai sbarrato, uccidendo la Speranza. L' esplosione gioiosa dell' alba della Risurrezione è rimossa a favore di una routine devozionale grigia , noiosa , segretamente ipocrita. Ma è sul serio così? Chi ha esperienza vera di Lourdes sa (e non è retorica) che questo è il regno del dolore ma anche della gioia; della disperazione e della speranza; del dubbio e della fede; dell' egoismo di mercanti, osti, professionisti dell' assistenza e della generosità di infiniti anonimi. Un impasto contradditorio, certo , ma pieno di vita e plasmato, malgrado tutto, da una fede tenace, che non si arrende. Vi sono talvolta nubi, sui Pirenei. Ma, ancor più spesso, vi splende un sole caldo. La Hausner ha le sue ragioni, cui va il nostro rispetto. Ma, attorno alla Grotta - quella vera, non quella della ex allieva delle suore che ha perso la fede - c' è un braciere che continua ad ardere, simboleggiato dalle mille candele accese giorno e notte, da 150 anni. Non c' è il cero ormai spento, o solo fumigante, che vorrebbe questo film, tanto eccellente nella tecnica quanto unilaterale nei contenuti. RIPRODUZIONE RISERVATA La storia L' apparizione Una contadina di 14 anni, Bernadette Soubirous, riferì di avere assistito a 18 apparizioni di «una bella signora» tra febbraio e luglio 1858 (presentatasi come l' Immacolata Concezione) Primo miracolo Bernadette avrebbe visto una donna (Caterina Latapie) riacquistare la mobilità di un braccio paralizzato dopo averlo immerso nell' acqua della fonte (1858 La statua Fu posta nel luogo, indicato come teatro della apparizioni, nel 1864 Guarigioni La Chiesa ha riconosciuti fino ad ora 67 miracoli Gli scettici Accusavano Bernadette di essere manovrata dall' abate Aravent, fratello della sua nutrice Devozione mariana

Messori Vittorio

domenica 14 febbraio 2010

MATRIMONIO E UNIONI OMOSESSUALI

Nota Dottrinale del 14 febbraio 2010

La presente Nota si rivolge in primo luogo ai fedeli perché non siano turbati dai rumori mass-mediatici. Ma oso sperare che sia presa in considerazione anche da chi non-credente intenda fare uso, senza nessun pregiudizio, della propria ragione.

1. Il matrimonio è uno dei beni più preziosi di cui dispone l’umanità. In esso la persona umana trova una delle forme fondamentali della propria realizzazione; ed ogni ordinamento giuridico ha avuto nei suoi confronti un trattamento di favore, ritenendolo di eminente interesse pubblico.

In Occidente l’istituzione matrimoniale sta attraversando forse la sua più grave crisi. Non lo dico in ragione e a causa del numero sempre più elevato dei divorzi e separazioni; non lo dico a causa della fragilità che sembra sempre più minare dall’interno il vincolo coniugale: non lo dico a causa del numero crescente delle libere convivenze. Non lo dico cioè osservando i comportamenti.

La crisi riguarda il giudizio circa il bene del matrimonio. È davanti alla ragione che il matrimonio è entrato in crisi, nel senso che di esso non si ha più la stima adeguata alla misura della sua preziosità. Si è oscurata la visione della sua incomparabile unicità etica.

Il segno più manifesto, anche se non unico, di questa "disistima intellettuale" è il fatto che in alcuni Stati è concesso, o si intende concedere, riconoscimento legale alle unioni omosessuali equiparandole all’unione legittima fra uomo e donna, includendo anche l’abilitazione all’adozione dei figli.

A prescindere dal numero di coppie che volessero usufruire di questo riconoscimento – fosse anche una sola! – una tale equiparazione costituirebbe una grave ferita al bene comune.

La presente Nota intende aiutare a vedere questo danno. Ed anche intende illuminare quei credenti cattolici che hanno responsabilità pubbliche di ogni genere, perché non compiano scelte che pubblicamente smentirebbero la loro appartenenza alla Chiesa.

2. L’equiparazione in qualsiasi forma o grado della unione omosessuale al matrimonio avrebbe obiettivamente il significato di dichiarare la neutralità dello Stato di fronte a due modi di vivere la sessualità, che non sono in realtà ugualmente rilevanti per il bene comune.

Mentre l’unione legittima fra un uomo e una donna assicura il bene – non solo biologico! – della procreazione e della sopravvivenza della specie umana, l’unione omosessuale è privata in se stessa della capacità di generare nuove vite. Le possibilità offerte oggi dalla procreatica artificiale, oltre a non essere immuni da gravi violazioni della dignità delle persone, non mutano sostanzialmente l’inadeguatezza della coppia omosessuale in ordine alla vita.

Inoltre, è dimostrato che l’assenza della bipolarità sessuale può creare seri ostacoli allo sviluppo del bambino eventualmente adottato da queste coppie. Il fatto avrebbe il profilo della violenza commessa ai danni del più piccolo e debole, inserito come sarebbe in un contesto non adatto al suo armonico sviluppo.

Queste semplici considerazioni dimostrano come lo Stato nel suo ordinamento giuridico non deve essere neutrale di fronte al matrimonio e all’unione omosessuale, poiché non può esserlo di fronte al bene comune: la società deve la sua sopravvivenza non alle unioni omosessuali, ma alla famiglia fondata sul matrimonio.

3. Un’altra considerazione sottopongo a chi desideri serenamente ragionare su questo problema.

L’equiparazione avrebbe, dapprima nell’ordinamento giuridico e poi nell’ethos del nostro popolo, una conseguenza che non esito definire devastante. Se l’unione omosessuale fosse equiparata al matrimonio, questo sarebbe degradato ad essere uno dei modi possibili di sposarsi, indicando che per lo Stato è indifferente che l’uno faccia una scelta piuttosto che l’altra.

Detto in altri termini, l’equiparazione obiettivamente significherebbe che il legame della sessualità al compito procreativo ed educativo, è un fatto che non interessa lo Stato, poiché esso non ha rilevanza per il bene comune. E con ciò crollerebbe uno dei pilastri dei nostri ordinamenti giuridici: il matrimonio come bene pubblico. Un pilastro già riconosciuto non solo dalla nostra Costituzione, ma anche dagli ordinamenti giuridici precedenti, ivi compresi quelli così fieramente anticlericali dello Stato sabaudo.

4. Vorrei prendere in considerazione ora alcune ragioni portate a supporto della suddetta equiparazione.

La prima e più comune è che compito primario dello Stato è di togliere nella società ogni discriminazione, e positivamente di estendere il più possibile la sfera dei diritti soggettivi.

Ma la discriminazione consiste nel trattare in modo diseguale coloro che si trovano nella stessa condizione, come dice limpidamente Tommaso d’Aquino riprendendo la grande tradizione etica greca e giuridica romana: "L’uguaglianza che caratterizza la giustizia distributiva consiste nel conferire a persone diverse dei beni differenti in rapporto ai meriti delle persone: di conseguenza se un individuo segue come criterio una qualità della persona per la quale ciò che le viene conferito le è dovuto non si verifica una considerazione della persona ma del titolo" [2,2, q.63, a. 1c].

Non attribuire lo statuto giuridico di matrimonio a forme di vita che non sono né possono essere matrimoniali, non è discriminazione ma semplicemente riconoscere le cose come stanno. La giustizia è la signoria della verità nei rapporti fra le persone.

Si obietta che non equiparando le due forme lo Stato impone una visione etica a preferenza di un’altra visione etica.

L’obbligo dello Stato di non equiparare non trova il suo fondamento nel giudizio eticamente negativo circa il comportamento omosessuale: lo Stato è incompetente al riguardo. Nasce dalla considerazione del fatto che in ordine al bene comune, la cui promozione è compito primario dello Stato, il matrimonio ha una rilevanza diversa dall’unione omosessuale. Le coppie matrimoniali svolgono il ruolo di garantire l’ordine delle generazioni e sono quindi di eminente interesse pubblico, e pertanto il diritto civile deve conferire loro un riconoscimento istituzionale adeguato al loro compito. Non svolgendo un tale ruolo per il bene comune, le coppie omosessuali non esigono un uguale riconoscimento.

Ovviamente – la cosa non è in questione – i conviventi omosessuali possono sempre ricorrere, come ogni cittadino, al diritto comune per tutelare diritti o interessi nati dalla loro convivenza.

Non prendo in considerazione altre difficoltà, perché non lo meritano: sono luoghi comuni, più che argomenti razionali. Per es. l’accusa di omofobia a chi sostiene l’ingiustizia dell’equiparazione; l’obsoleto richiamo in questo contesto alla laicità dello Stato; l’elevazione di qualsiasi rapporto affettivo a titolo sufficiente per ottenere riconoscimento civile.

5. Mi rivolgo ora al credente che ha responsabilità pubbliche, di qualsiasi genere.

Oltre al dovere con tutti condiviso di promuovere e difendere il bene comune, il credente ha anche il grave dovere di una piena coerenza fra ciò che crede e ciò che pensa e propone a riguardo del bene comune. È impossibile fare coabitare nella propria coscienza e la fede cattolica e il sostegno alla equiparazione fra unioni omosessuali e matrimonio: i due si contraddicono.

Ovviamente la responsabilità più grave è di chi propone l’introduzione nel nostro ordinamento giuridico della suddetta equiparazione, o vota a favore in Parlamento di una tale legge. È questo un atto pubblicamente e gravemente immorale.

Ma esiste anche la responsabilità di chi dà attuazione, nella varie forme, ad una tale legge. Se ci fosse bisogno, quod Deus avertat, al momento opportuno daremo le indicazioni necessarie.

È impossibile ritenersi cattolici se in un modo o nell’altro si riconosce il diritto al matrimonio fra persone dello stesso sesso.

Mi piace concludere rivolgendomi soprattutto ai giovani. Abbiate stima dell’amore coniugale; lasciate che il suo puro splendore appaia alla vostra coscienza. Siate liberi nei vostri pensieri e non lasciatevi imporre il giogo delle pseudo-verità create dalla confusione mass-mediatica. La verità e la preziosità della vostra mascolinità e femminilità non è definita e misurata dalle procedure consensuali e dalle lotte politiche.

Bologna, 14 febbraio 2010
Festa dei Santi Cirillo e Metodio
Compatroni d’Europa

+ Carlo Card. Caffarra
Arcivescovo di Bologna


sabato 13 febbraio 2010

La Repubblica Romana del 1849

Dopo la fuga di Pio IX a Gaeta, nasce la Repubblica Romana. La guidano Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini. Un passo verso la libertà, dicono i libri di scuola. Tacendo il suo vero scopo: cancellare la Chiesa. Per conto della Massoneria…

di Angela Pellicciari

II potente gran maestro della massoneria italiana Adriano Lemmi, alla fine dell'Ottocento, riteneva che la scomparsa del potere temporale dei papi fosse il «più memorabile avvenimento della storia del mondo».
Per capire i fatti, per capire cosa è successo durante la breve vita della Repubblica Romana del 1849, per capire soprattutto l'eco che di quei fatti ancora oggi si respira, non sarà inutile ricorrere a qualche breve citazione della stampa massonica di allora. Questa la prosa del gran maestro Mazzoni: «A Roma sta il gran nemico della luce. Lo attaccarlo ivi di fronte, direi quasi a corpo a corpo, è dover nostro». E questi erano gli auspici della Rivista della Massoneria nel 1871: «facciamo sì che dalla Eterna Città nostra la luce si diffonda per l'Universo, che il mondo ammiri, a canto del nero ed avvilito Gesuita, il libero gigante potere della Massoneria [...] È in Italia, è a Roma, ove il nostro eterno avversario raccoglie le sue ultime forze. Noi siamo gli avamposti dell'esercito massonico universale». La rivoluzione che scoppia, violentissima, a Roma, nel 1849, passata alla storia col nome di Repubblica Romana, di romano ha in effetti ben poco. Si va dal genovese Mazzini, al nizzardo Garibaldi, al genovese Avezzana, ministro della guerra, al friulano Dall'Ongaro, direttore del giornale ufficiale
Monitore Romano, al napoletano Saliceti, redattore della Costituzione: l'elenco è lungo. Come mai rivoluzionari di tutta Italia, ed anche stranieri, chiamano romana la repubblica che proclamano? Il perché lo spiega Giuseppe Mazzini, anima di quel tentativo totalitario, condotto, manco a dirlo, nel nome della libertà e della costituzione. A chi dice «Roma è dei Romani», scrive Mazzini, bisogna rispondere: «No; Roma non è dei Romani: Roma è dell'Italia». E la popolazione romana sbigottita dalla violenza rivoluzionaria? «I Romani che non lo intendono non sono degni del nome». I romani non degni del nome sono, come ovvio, in primo luogo i cattolici: praticamente tutta la popolazione. La gnosi, nelle sue varie incarnazioni settarie, è convinta di saperla molto più lunga della Rivelazione e del Magistero che la interpreta. Mazzini, e con lui tutte le società segrete, si ripropongono di farla finita con la Chiesa cattolica: è un ostacolo al progresso incarnato dalle loro scientifiche convinzioni politiche. Il mito della Terza Roma, che prepotentemente si afferma durante l'Ottocento, persegue proprio questo obiettivo: mettere la parola fine alla Roma cristiana che ha oscurato (così si ritiene) la bellezza e la forza di quella pagana, riportando l'orologio della storia indietro di millecinquecento anni e tornando ai fasti del paganesimo. Terza Roma, per l'appunto. Questa è l'IDEA - come si diceva allora scrivendola in maiuscolo ed idolatrando il pensiero di chi tanto ideale aveva concepito - che trionfa a Roma nel 1849. Ebbri di gioia per la fine del potere temporale, i rivoluzionari governano da ubriachi, ovvero da briganti. Chi lo dice? Non solo il papa Pio IX, costretto a fuggire a Gaeta dove è ospite di Ferdinando II di Borbone, ma le stesse fonti liberali dell'epoca che descrivono le gesta del potere rivoluzionario. Varrà la pena di citare qualche testimonianza, a cominciare, come ovvio, dal Papa. Il 20 aprile 1849 da Gaeta, nell'allocuzioneQuibus, quantisque malorum, Pio IX descrive in una lunga lettera cosa succede a Roma in nome della libertà e della costituzione.
I liberali affermano di agire per il bene della Chiesa che vogliono purificata dall'incombenza del potere temporale? I liberali desiderano che la Chiesa diventi più aderente ai voleri di Cristo e, quindi, più povera, pura e libera? Analizziamo i fatti, suggerisce il Papa, e vediamo se sono davvero queste le intenzioni dei rivoluzionari. I fatti sono i seguenti: è impedita qualsiasi comunicazione del Papa con i vescovi, il clero, i fedeli; Roma si riempie di uomini (apostati, eretici, comunisti e socialisti, come si definiscono) provenienti da tutto il mondo, pieni di odio nei confronti della Chiesa; i
liberali si impossessano di tutti i beni, redditi e possedimenti ecclesiastici; le chiese sono spogliate dei loro ornamenti; gli edifici religiosi dedicati ad altri usi; le monache maltrattate; i religiosi assaliti, imprigionati ed uccisi; i pastori separati dal proprio gregge ed incarcerati.
La conclusione che Pio IX trae dall'analisi delle imprese del potere rivoluzionario è inequivocabile. La mitica Repubblica Romana ha un unico, vero, obiettivo: il fine delle società segrete (che non esitano ad utilizzare a questo scopo lo stesso nome di Cristo) è la totale distruzione della Chiesa cattolica. Proprio come convintamente sostenuto dai gran maestri e dalla rivista della la massoneria.
Gli agitatori di popolo calati a Roma nel 1849 agiscono da briganti non solo nei confronti della Chiesa e delle sue proprietà. Pio IX documenta come i liberali mettano in pericolo l'ordine e la prosperità dell'intera società civile: l'erario pubblico è dissipato e ridotto a nulla; il commercio interrotto e quasi inesistente; i privati derubati dei loro beni da coloro che si definiscono guide della popolazione; la libertà e la stessa vita di tutti i sudditi fedeli messa in pericolo.
Le fonti liberali contraddicono le affermazioni del Papa? Niente affatto. Luigi Carlo Farini, futuro presidente del Consiglio del Regno d'Italia, ne
Lo stato romano dall'anno 1814 al 1850, scrive: «Fra gli inni di libertà, e gli augurii di fratellanza erano violati i domicilii, violate le proprietà; qual cittadino nella persona, qual era nella roba offeso, e le requisizioni dei metalli preziosi divenivano esca a ladronecci, e pretesto a rapinerie». Quanto all'eroe dei due mondi, il generale Garibaldi, nelle sue Memorie, così racconta cosa capita - e cosa fanno - i bravi garibaldini: «mossomi da Tivoli verso tramontana per gettarmi tra popolazioni energiche e suscitarne il patriottismo, non solo non mi fu possibile riunire un sol uomo, ma ogni notte [...] disertavano coloro che mi avean seguito da Roma». Cosa facevano i disertori? «I gruppi dì disertori si scioglievan sfrenati per le campagne e commettevano violenze d'ogni specie».
Stando così le cose - e le cose stanno così - viene spontaneo domandarsi come mai, caduti tanti miti, infrante tante ideologie, nessuno, ma proprio nessuno, abbia neppur lontanamente cominciato a mettere in discussione la leggenda creata intorno alla Repubblica Romana. Da destra come da sinistra tutti danno per scontato che l'esperimento ideato da Mazzini abbia costituito un effettivo passo in avanti verso la libertà, la costituzione, il progresso, la giustizia. Basti ricordare che all'epoca della giunta guidata da Storace, solo pochi anni fa, la Regione Lazio spese parecchio denaro per diffondere capillarmente in tutte le scuole un opuscolo a fumetti dal titolo
Mazzini e il Risorgimento. In una delle vignette comparivano tre personaggi, all'apparenza contadini (erano accompagnati da vanghe e cazzuole), contadini che però indossavano una bella coccarda tricolore. Il primo gridava: «Hanno confiscato le terre del clero»; il secondo ribatteva: «e ora le distribuiscono ai contadini». Il terzo tirava le conclusioni: «Viva la repubblica».
La verità è che, a destra come a sinistra, più o meno mascherata, più o meno avvertita, è sempre viva un'incrollabile ostilità, che in alcuni casi è più esatto definire odio, verso la Chiesa cattolica. In questo panorama, va detto perché rappresenta un'assoluta novità, il presidente Berlusconi ha pubblicamente suggerito a tutti la lettura del mio primo libro:
Risorgimento da riscrivere. Cambierà qualcosa?

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«Comandiamo ai nostri buoni e fedeli sudditi dl non resistere, per non moltiplicare quegli odi civili, a estinguere i quali daremmo volentieri la vita in olocausto. Quando a Dio piaccia, ben potrà Egli sen'alcuna forza umana riedificare mediante l'amore dei popoli questo temporale dominio della Santa Sede, che dall'amore dei popoli ebbe origine». (Pio IX, manifesto scritto prima di fuggire da Roma, in Angela Pellicciari,
Risorgimento da riscrivere. Liberali & massoni contro la Chiesa, Ares, 1998, p. 89).

IL TIMONE n.88 – Dicembre 2009

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