Il recente sinodo dei Vescovi sulla famiglia ha lasciato più di qualche interrogativo tra i tanti cattolici che oggi si affannano di capire dove sta andando la barca della Chiesa in tempesta. La Relazione finale, pur ribadendo (almeno) formalmente la dottrina cattolica sull’indissolubilità del matrimonio, lascia irrisolta, in puro stile “conciliare”, più di qualche questione ed in particolar modo sulla possibilità per i divorziati risposati di accedere al santissimo sacramento dell’Eucarestia, in base all’ambiguo criterio del “discernimento”[1]. Se anche gli Apostoli ebbero paura di affondare nel mezzo del mare in tempesta – “Magister, non ad te pertinet, quia perimus?[2]”– noi dobbiamo restare ancorati alle promesse divine lasciateci da Nostro Signore Gesù Cristo sulla indistruttibilità della sua Chiesa fondata su san Pietro[3]. Questa certezza tuttavia non può esimerci dall’affrontare talune considerazioni di ordine storico e giuridico sullo stato attuale dell’istituto matrimoniale, attaccato a più riprese anche dal legislatore italiano.
In epoca romana il matrimonium, quale unione stabile tra persone di sesso diverso, conservò nel corso dei secoli sostanzialmente i propri caratteri. Esso era caratterizzato dal reciproco consenso espresso dai coniugi, che doveva essere durevole, continuativo e ininterrotto[4]. Nelle epoche più tarde non si registrarono particolari novità, tanto è vero che in epoca post-classica il matrimonium era considerato ancora come un rapporto, fondato su di un accordo iniziale di volontà[5]. Bisogna tuttavia evidenziare che per i romani il concetto del sacro, seppur legato a un’idea del sovrannaturale, aveva tutto sommato una dimensione naturalistica e poco incline al trascendente. Le conseguenze di tale visione sono evidenti: nonostante la indubbia valenza pubblicistica il matrimonium non era considerato come un dato immutabile per la società romana. In particolare, il divortium, sebbene appannaggio delle famiglie più aristocratiche, era in ogni caso un dato acquisito anche negli strati più bassi della società, sebbene con qualche diversità a seconda del periodo storico di riferimento.
Accanto al matrimonium istum l’ordinamento conosceva anche il concubinatus, ossia la convivenza manifesta e continuata di due persone di sesso diverso, priva tuttavia dell’affectio coniugalis, che poteva dare vita anche a forme di convivenza more uxorio tutelate.
Le (in)certezze del mondo pagano sono stato vinte da Nostro Signore Gesù Cristo – “Ego sum via, veritas et vitam; nemo venit ad Patrem, nisi per me[6]”– il quale ha costituito la propria potestas non soltanto sugli aspetti spirituali ma anche sugli affari materiali e sociali[7]. La Civitas Christiana quindi deve orientare le proprie leggi in funzione della Regalità Sociale di Cristo, solennemente ribadita da Pio XI nella Quas primas nel dicembre 1925. Non è un caso infatti che le variegate eresie protestanti abbiano sostanzialmente scardinato tale prospettiva, separando lo Stato dalla chiesa, secondo l’idea che le Istituzioni civili debbano disinteressarsi degli affari religiosi, relegati al foro interno del fedele.
La Chiesa cattolica nel confermare i fratelli nella Fede[8] ha sempre insegnato infallibilmente il valore Sacramentale del matrimonio cristiano. Significa quindi che, a differenza del mondo pagano, esso rappresenta un istituto dal valore soprannaturale e sacramentale. A tal proposito il Codex Iuris Canonici del 1917 (c.d. Codice Pio-Benedettino) ha mirabilmente definito la struttura e le caratteristiche fondamentali del Matrimonio cattolico.
Il can. 1012 pone Christus Dominus come elemento fondante del vincolo matrimoniale, mentre il successivo can. 1013 evidenzia che il fine primario, ancorché non esclusivo, del matrimonio è rappresentato dalla procreazione e dall’educazione della prole, mentre gli aspetti, per così dire, di mutuo sostegno tra gli sposi assumono una dimensione ancillare.
Una volta espresso il reciproco consenso nell’atto matrimoniale il rapporto diviene indissolubile, perché si fonda su Gesù Cristo e sulla sua Chiesa. Tuttavia è possibile che sia l’atto ad essere affetto da nullità in presenza di alcuni presupposti.
Non ci soffermeremo sulle nullità matrimoniali e lasceremo la trattazione ai canonisti; ciò che più ci preme in questa sede è di evidenziare come la recente riforma sul processo canonico voluta da Bergoglio sembri seguire di pari passo l’altrettanto recente riforma civile del c.d. divorzio breve approvato nel 2015. Il cerchio peraltro si chiude dando uno sguardo alla già citata Relazione finale del sinodo dei Vescovi sulla famiglia del 24 ottobre 2015. Ma procediamo con ordine.
In realtà già il Codice di diritto canonico approvato da Wojtyła nel 1983 sembra aver codificato un concetto di matrimonio forse non proprio in linea con il precedente codice. Il can. 1055 pone oggi il vir e la mulier al centro del patto matrimoniale mentre Cristo è posto, diversamente dal precedente can. 1012, in posizione subordinata, ancorché venga ribadito il valore sacramentale dell’istituto matrimoniale. Inoltre non passerà inosservato neanche ai meno esperti di diritto che il concetto patto evoca una dimensione contrattualistica che implica, di per sé, la possibilità che possa essere sciolto (non importa come). Ancora, il fine assistenziale tra i coniugi è posto in posizione principale rispetto alla procreazione e all’educazione della prole. In sintesi, si può prudentemente affermare che già il diritto canonico del 1983 aveva (forse) aperto la strada a un mutamento del concetto di matrimonio.
In ambito civile la l. 898 del 1970, passata tristemente alla storia come “legge sul divorzio”, ha segnato una profonda ferita all’interno della società italiana. Se in epoche passate i tentativi di inserire nella legislazione civile il divorzio naufragarono miseramente per le resistenze della Chiesa o perché furono di fatto boicottati dalla popolazione (ancora) fortemente cristianizzata – si pensi alla (forse) poco nota questione del divorzio nel Regno di Napoli dal 1809 al 1815, raccontata da Benedetto Croce[9] – nell’Italia democratica degli anni Settanta le forze anticattoliche sedute in Parlamento ebbero vita facile. In realtà non ci si deve meravigliare di come la legge sul divorzio abbia potuto fare breccia nella società italiana: lo Stato moderno, prima liberale, poi fascista, ed oggi costituzionale, ha sempre ripudiato la Regalità Sociale di Cristo e ha sempre combattuto per una netta separazione tra diritto e morale, propugnata a suo tempo da Immanuel Kant[10]. Nonostante l’art. 29 Cost. infatti riconosca la famiglia come una società naturale fondata sul matrimonio, non precisa in che termini debba essere considerata e su quali principi si fondi, secondo una visione meramente naturalistica e priva di riferimenti alla dimensione sacramentale.
Una volta aperta la strada al divorzio la famiglia cristiana ha continuato a subire numerosi attacchi da parte di un legislatore sempre più laicista: basti citare ex pluribus la l. 194 del 1978 sulla c.d. interruzione volontaria di gravidanza o la l. 164 del 1982 sulla rettifica dell’attribuzione del sesso. Si tratta di interventi normativi che hanno segnato un punto di rottura impressionante rispetto al passato cristiano: l’uomo diviene fine ultimo dell’ordinamento e si sostituisce alla divinità secondo una prospettiva liberal-massonica. A tali interventi legislativi si è affiancata (come se non bastasse) anche la giurisprudenza che, in un’opera di lenta (ma progressiva) rottura dei tradizionali principi, ha attribuito oggi rilevanza giuridica alla convivenza more uxorio e ha aperto la strada al riconoscimento del matrimonio (o unione) omosessuale[11].
In questo quadro ordinamentale già così devastato il legislatore ha pensato bene (dovremmo dire male) di dare un ulteriore terribile colpo all’istituto matrimoniale attraverso la recente riforma del divorzio breve. Precisiamo: non si vuole sostenere che possa esistere un divorzio “buono” e un divorzio “cattivo” secondo la logica democristiana del “male minore”, anzi! Si vuole semplicemente descrivere lo stato attuale del nostro ordinamento e sottolineare come il male risiede proprio nella possibilità che si possa divorziare. Peraltro appare doveroso sottolineare come questa riforma, nonostante qualche breve battuta di arresto durante l’iter legislativo, è stata votata dal Parlamento in maniera trasversale, evidenziando (se ce ne fosse ancora bisogno) l’inesistenza di una qualsivoglia forma di “resistenza” cattolica nelle aule parlamentari.
La ratio della riforma è chiara: si vuole incentivare la risoluzione consensuale del rapporto matrimoniale abbreviando notevolmente i termini per la dichiarazione di divorzio in caso di comune accordo. Il parallelo con il divortium è facilmente intuibile: sono i coniugi a stabilire come disporre del proprio rapporto, così come poteva accadere nella società romana. Inoltre oggi è anche possibile che sia l’avvocato o l’ufficiale di stato civile a poter sovrintendere alla procedura divorzile. In altri termini, l’istituto matrimoniale sembra quasi smarrire la propria dimensione pubblicistica per diventare una faccenda tutta privata tra i coniugi. Sembra quasi che l’ordinamento abbia preso spunto dalla tesi di Bertrand Russel sul “matrimonio di prova” quale “forma di convivenza a favore dei giovani non ancora pronti ad assumersi le responsabilità derivanti dall’impegno matrimoniale[12]”.
Poco dopo queste riforme civili Bergoglio è intervenuto con incredibile sincronia, procedendo a una sostanziale riforma del processo canonico di nullità matrimoniale. Le due lettere firmate l’8 settembre 2015 in forma di Motu proprio, la Mitis iudex Dominus Iesus[13] e la Mitis et misericors Iesus[14], sono intervenute rispettivamente sulle procedure previste dal Codice di diritto canonico per la Chiesa latina e per le Chiese orientali, innovando dopo quasi trecento anni la disciplina previgente. Tra gli aspetti che più interessano ai fini del nostro discorso occorre segnalare l’abolizione del principio della doppia sentenza conforme e l’istituzione di un rito speciale molto più celere (processus brevior) quando la causa è proposta congiuntamente da entrambe le parti e la prove della nullità sono evidenti. Si tratta di interventi volti ad accelerare la dichiarazione di nullità e in cui il parallelo con la ratio della legge sul divorzio breve testé esplicata è inquietante. Il cerchio si è chiuso con la Relazione finale del Sinodo dell’ottobre 2015: il “fallimento” del matrimonio civile non deve precludere alla partecipazione dei divorziati “risposati” alla vita della Chiesa (non si comprende pienamente come). In realtà è necessario spiegare che la Chiesa non esclude nessuno; semmai siamo noi stessi che con il nostro comportamento ci poniamo ipso facto fuori di Essa. La vera misericordia è quella che si compiace della Verità e la Verità riposa in Gesù Cristo Nostro Signore.
All’esito di questa analisi storico-giuridica è possibile trarre alcune importanti considerazioni: il matrimonio civile ormai non ha più alcun valore meta-giuridico, nonostante l’art. 29 Cost., e si pone come mero rapporto personale tra i coniugi in un’ottica meramente naturalistica, corroso dal cancro del divorzio e subdolamente imitato dalla convivenza more uxorio. Sulla stessa scia il matrimonio cattolico ha subito il fascino del legislatore civile, che spinge affinché il vincolo possa essere sciolto nel minor tempo possibile e con il minor “fastidio” per le parti interessate. Il Codice di diritto canonico del 1983 e le recenti riforme di Bergoglio sul processo canonico di nullità matrimoniale sembrano aver inciso anche sulla stessa dimensione sovrannaturale e trascendente del matrimonio. Siamo di fronte al ritorno ad un passato precristiano pagano (con le dovute differenze) o forse ci stiamo muovendo verso una società sempre più post-cristiana. Come abbiamo detto all’inizio, non dobbiamo aver paura perché la barca in tempesta non affonderà: Nostro Signore Gesù Cristo ci ha promesso la vittoria sulle forze infernali e la Santissima Vergine a Fatima ha gridato a gran voce che alla fine il Suo Cuore Immacolato trionferà. Per adesso a noi tocca pregare e portare avanti la giusta battaglia.
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[1] cfr. pt. 84 ss., Relazione Finale del Sinodo dei Vescovi al Santo Padre Francesco, 24 ottobre 2015, consultabile su https://press.vatican.va/content/salastampa/en/bollettino/pubblico/2015/10/24/0816/01825.html
[2] (Mc, 4, 38).
[3] (Mt, 16, 18).
[4] Cfr. Guarino A., “Diritto privato romano (in corsivo), Napoli, 2001”, p. 558.
[5] Cfr. Guarino A., ibidem, p. 559.
[6] (Gv, 14, 6).
[7] (Gv, 18, 37-38).
[8] (Mt, 26, 31).
[9] Cfr. Croce B., Il divorzio nelle province napoletane 1809-1815, apparso sulla rivista ‘La Scuola Positiva’. Anno I.,n.11-12, Napoli, 1891, pp.1-17. Benedetto Croce riferisce inoltre che i due furono duramente osteggiati e isolati dalla società dell’epoca.
[10] Cfr. Kant I., Die Metaphysik der Sitten (1798).
[11] Corte Cost., sent. n. 138 del 2010.
[12] Russel B., Marriage and Moral, London, 1929.
[13] V. https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2015/09/08/0652/01418.html
[14] V. https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2015/09/08/0653/01419.html
diritto, famiglia, Marco Martone, matrimonio
di Marco Martone
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