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venerdì 21 luglio 2017

Non è più il Santo Curato d’Ars il modello di prete della “nuova Chiesa”

È più che mai evidente che a papa Francesco — il cui governo della Chiesa assomiglia più ad un generalato che ad un pontificato — piace come modello di sacerdote quello che viene chiamato il “prete scomodo”, ovvero quel prete politicamente corretto che non ama la Chiesa cattolica così com’è, ma vuole cambiarla. Eppure i pontefici degli ultimi 150 anni, immediati predecessori di Francesco, hanno indicato in San Giovanni Maria Vianney, il Curato d’Ars, il modello del sacerdote cattolico, fedele a Cristo e innamorato della Chiesa.
Non siamo stati gli unici a condividere chi, molto saggiamente e umilmente, supplicava al santo Padre Francesco, di non “canonizzare” modelli di prete come Mazzolari e Milani, clicca qui, qui una testimonianza ben documentata sul caso Don Milani, e anche qui. Sia ben chiaro che non abbiamo nulla contro il “prete di strada”, o contro quei sacerdoti che si sono battuti per i diritti sociali degli uomini. Il problema non è la giusta battaglia sociale di questi ed altri sacerdoti, ma – come abbiamo ripetuto e provato spesso – quando alla “Dottrina sociale della Chiesa” si toglie “la dottrina” e si avanza esclusivamente sul sociale, abbiamo il catto-marxismo quale fondamento della dottrina della nuova chiesa, per altro sponsorizzato proprio da quel gesuitismo modernista di cui, Bergoglio, è l’assoluto propagatore, vedi qui.
Naturalmente Papa Francesco non ascolta nessuno, o peggio, ascolta solo i malvagi consiglieri (perché così vuole) e accantona, umilia e penalizza i saggi consiglieri, vedi qui, per avanzare nel suo personale progetto di chiesa il quale, infatti, anche sulla nuova immagine del prete, ha letteralmente cestinato l’Anno Sacerdotale indetto da Benedetto XVI 2009-2010 (mai citato in quattro anni da Bergoglio), con tutto il suo ricco patrimonio magisteriale, vedi qui, attraverso il quale egli riproponeva quale modello del Sacerdote di oggi il Santo Curato d’Ars, San Giovanni Maria Vianney.
Per carità, il Curato d’Ars non è certo l’unico modello giacché lo Spirito Santo suscita diversi Carismi per l’azione pastorale, ma senza dubbio è l’unico modello che sta alla base dell’autentico sacerdote. E’ curioso constatare che anche san Giovanni XXIII ebbe da ridire su Don Milani tanto da portare anche lui, il Santo Curato d’Ars, quale modello di sacerdote per i tempi moderni della Chiesa, quando parlava di felice coincidenza per i sacerdoti – vedi qui. Ed è corretto ricordare che tutti i Pontefici, da Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, tutti loro hanno mantenuto una costante prudenza e costanza nel non usare questi sacerdoti quali nuovi modelli per i preti moderni, tutti loro hanno sempre ricordato che l’esempio e il modello più saggio e veritiero è San Giovanni Maria Vianney, ma per Papa Francesco no, eppure ha ammesso anche lui che non è tutto oro ciò che luccica, ha ammesso che: “Ciò non cancella le amarezze che hanno accompagnato la vita di don Milani – non si tratta di cancellare la storia o di negarla, bensì di comprenderne circostanze e umanità in gioco –, ma dice che la Chiesa riconosce in quella vita un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa…” vedi qui.
Questo metodo di ammettere l’esistenza di un problema o di un errore e di superarlo NON correggendolo ma scavalcandolo, è tipico proprio del Modernismo, la piaga purulenta, la “sintesi di tutte le eresie” attraverso le quali sdoganare il peccato, sdoganare l’errore (“non si tratta di cancellare la storia o di negarla, bensì di comprenderne circostanze“, afferma Bergoglio) penalizzando, piuttosto, quei Sacerdoti davvero perseguitati e Santi quali, ad esempio, Don Dolindo Ruotolo del quale, questo Papa, in tutti questi anni non ha mai avuto una sola parola di affetto, di gratitudine e di esemplarità. “Le circostanze” diventano la giustificazione dell’errore, così la pensa Bergoglio.

Perché sdoganare Don Milani e Don Mazzolari? Semplice (si fa per dire), per giustificare la fusione tra cristianesimo e marxismo di cui i Gesuiti modernisti da Pedro Arrupe si sono fatti promotori e divulgatori. Riabilitare questi due sacerdoti è come un voler superare quell’ostacolo della Teologia della Liberazione, prima, e del Popolo dopo che se è vero che non giunse in Italia come nell’America latina, è vero che in Italia fu sempre combattuta, osteggiata il cui ostacolo principale – a tale sdoganamento – era proprio l’allora cardinale Ratzinger prima, durante il pontificato di Giovanni Paolo II e da Papa poi, Benedetto XVI.Come possiamo ben vedere non è necessario avanzare dei processi a taluni sacerdoti dottrinalmente eretici, la Chiesa lo ha fatto senza scomunicare i preti, ma condannando almeno le loro dottrine, questo atteggiamento “misericordioso” però ha permesso a Papa Francesco di spingersi ben oltre la tolleranza del prete dottrinalmente errante, gli ha permesso di sdoganare anche l’errore perché lui di dottrina NON vuole sentirne parlare, a lui interessa solo l’azione pastorale dimenticando che se la pastorale non fonda le proprie radici sulla VERITA’, ciò che si semina sarà la carità senza verità!
Papa Francesco non insegna nulla, ma IMPONE la sua propria immagine di Chiesa, una chiesa senza dottrine, senza catechismo, ma fatta solo di gesti umanitari. Basta leggere i suoi discorsi durante la visita a questi due sacerdoti, per scorgervi il vuoto, il nulla dottrinale, il nulla magisteriale. Discorsi che vogliono IMPORRE la sua visione della fusione tra dottrine marxiste e il cristianesimo attraverso le azioni e i gesti di questi due sacerdoti che, per lui, sono la prova di questa nuova forma di santità in orizzontale.
Ed è paradossale quando poi, invece, Bergoglio IMPONE ai cattolici “conservatori” della sana dottrina il silenzio, o peggio, quando scatena fiumi di parole per umiliarli, condannarli, sminuirne l’esempio, offuscarne l’insegnamento. Ed è paradossale, e di presa in giro, che il cardinale Betori dica alla stampa circa la beatificazione di Don Milani: «Assolutamente no, almeno fino a quando ci sarò io. Dopo non tocca a me dirlo… ma io non credo alla santità di don Lorenzo: qui non ci farò un santuario», nel mentre ha taciuto durante la visita del Papa, anzi, assumendo l’atteggiamento supino e servile di chi ha confuso la castità, il celibato sacerdotale con la perdita della virilità….Amici cari: una “nuova chiesa”, come si va millantando da oltre cinquant’anni, necessita di nuove dottrine, nuove liturgie, nuove forme di sacerdote, nuovi culti, nuove immagini, nuovi sdoganamenti, nuovi esempi, nuovi modelli….  Noi non siamo contro il Concilio, non c’è bisogno di essere “contro” il Papa o “qualcuno” per denunciare gli errori, non siamo “contro” dei sacerdoti, si è contro certe “novità” quando queste sdoganano l’errore e lo assurgono quale fondamento della “nuova chiesa”!
Concludiamo con le parole profetiche di San Pio X che descrivono bene la situazione e ci confermano nella Veritas, parole oscurate dal sito Vaticano, che non troverete lì dentro:«…che cos’è diventato il cattolicesimo… una tale fiume limpido e impetuoso è stato captato, nel suo corso, dai moderni nemici della Chiesa e d’ora innanzi forma solo un misero affluente del grande movimento di apostasia , organizzato, in tutti i paesi, per l’instaurazione di una Chiesa universale, che non avrà né dogmi, né regole per lo spirito, né freno per le passioni, e che, con il pretesto della libertà e della dignità umana, ristabilirebbe nel mondo, qualora potesse trionfare, il regno legale dell’astuzia e della forza…
Abbiamo la convinzione che la questione sociale e la scienza sociale non sono nate ieri; che in ogni tempo la Chiesa e lo Stato, felicemente concertati, hanno suscitato a questo scopo organizzazioni feconde; che la Chiesa, che non ha mai tradito la felicità del popolo con alleanze compromissorie, non deve distaccarsi dal passato e che le basta riprendere con la collaborazione dei veri operai della restaurazione sociale, gli organismi infranti dalla Rivoluzione e adattarli, nel medesimo spirito cristiano che li ha ispirati, al nuovo ambiente creato dall’evoluzione materiale della società contemporanea: infatti i veri amici del popolo non sono né rivoluzionari, né novatori, ma tradizionalisti…» (San Pio X – Lettera Notre charge apostolique – 25 agosto 1910)

giovedì 20 luglio 2017

L’ebreo don Lorenzo Milani? [a 50 anni dalla morte]

50 anni dalla morte di don Milani

Recentemente, nel mese di luglio del 2017, con la visita di papa Bergoglio a Barbiana sulla tomba di don Lorenzo Milani (Firenze 27 maggio 1923 – 26 giugno 1967), è tornato alla ribalta il “problema don Milani”.
Comunemente don Milani è visto come un prete contestatore, filo-proletario, socialisteggiante, ma ciò non è tutto.
Don Milani giudaizzante
Nel 2013 è uscito un libro, molto ben documentato, di Paolo Levrero intitolato L’ebreo don Milani (Genova, Il Melangolo1), che apre una visuale nuova e più ampia, la quale sta alla radice dell’impegno sociale e socialista dell’ex parroco di Barbiana. Nel presente articolo mi baso su di esso per far un po’ di luce su questa figura, che è poliedrica, apparentemente contraddittoria e della quale non era ben conosciutol’aspetto giudaizzante, che è stato messo molto bene in rilievo dal Levrero.
La contraddizione del “giudeo-cristianesimo”
Il libro “muove dalla tesi che il suo titolo manifesta: il cristianesimo di don Lorenzo Milani è saldato a un radicale ebraismo. Sebbene implicitonella sua biografia e trascurato dalla critica, l’ebraismo milaniano affiora attraverso gli originali significati dei quali Milani stesso ha saputo intridere la propria esperienza di uomo e prete cattolico” (P. Levrero,L’ebreo don Milani, Genova, Il Melangolo, 2013, p. 9).
Già alcuni anni fa l’arcivescovo di Firenze mons. Betori aveva parlato dell’ebraismo di don Milani come di un fattore positivo della personalità incompresa dalla Chiesa preconciliare del parroco di Barbiana, quale anticipatore del Concilio Vaticano II e specialmente della DichiarazioneNostra aetate.
Ora, grazie alle citazioni riportate nel libro succitato, si può capire meglio come realmente don Lorenzo Milani abbia precorso certe tematiche filo-giudaizzanti, che vennero dibattute e contestate vivamente come eterodosse durante il Concilio (1962-1965) riguardo ai rapporti tra cristianesimo ed ebraismo.
A partire da ciò si può dire, senza tema di calunniare nessuno, che la vita di don Milani si fonda sull’equivoco del giudeo-cristianesimo, ossia della conciliazione dell’inconciliabile. Infatti il cristianesimo crede nella divinità di Gesù Cristo, mentre l’ebraismo post-biblico la nega e la reputa una bestemmia. Per cui le due cose non possono stare assieme, ma o è vera l’una (Cristo è Dio) e falsa l’altra (Cristo non è Dio ed è un mentitore, che meritava la morte poiché da uomo si è fatto Dio) o viceversa.
Purtroppo nel mondo moderno, fondato hegelianamente sulla contraddizione, tutto ciò che è assurdo ed impossibile poiché contraddittorio è diventato, invece, vero e reale. Quindi la figura di don Milani, che era incompresa nel periodo preconciliare, scolastico, dogmatico e a-pastorale, diventa addirittura “profetica” nel periodo post-conciliare, che ha fatto pastoralmente sua la filosofia della modernità idealistica come auspicava già Giovanni XXIII.
Il pericolo del giudeo-cristianesimo
La dottrina sul pericolo del giudeo-cristianesimo è esposta specialmente nelle Epistole di San Paolo. Egli nel suo secondo viaggio apostolico (nel 50 circa) arrivò nella Galazia del nord (con capitale Ankara). Ritornandovi tre anni dopo, si accorse che coloro che aveva evangelizzato nel primo incontro, si “erano lasciati abbindolare dai fanatici giudeo-cristiani, abbracciando le pratiche del giudaismo (circoncisione, ecc.) quasi necessarie alla salvezza”2. Dunque, da Efeso (nel 54 circa) s. Paolo – divinamente ispirato – scrive loro confutando gli errori del giudeo-cristianesimo e dei giudaizzanti.
Nell’Epistola ai Galati l’Apostolo insegna: “Mi meraviglio che così presto vi siete allontanati da Colui che vi ha chiamato nella grazia di Cristo, passando ad un vangelo diverso…, vi sono alcuni che gettano lo scompiglio in mezzo a voi e si propongono di stravolgere il Vangelo di Cristo. Ora, se anche un Angelo vi annunziasse un vangelo diverso da quello che noi stessi vi abbiamo annunciato, sia anatema!” (I, 6-8). I Padri, i Dottori e gli esegeti approvati nella Chiesa spiegano in tal senso il passaggio paolino: i giudaizzanti disertano e abbandonano il Vangelo di Cristo, predicato dai suoi apostoli, per aderire ad un altro vangelo contrapposto a quello cristiano, esso è un contro-vangelo, poiché i giudeo-cristiani si propongono di pervertire il Vangelo di Cristo. Il giudeo-cristianesimo vuole disertare o abbandonare Dio, che chiama gli uomini alla grazia ottenutaci da Cristo con la sua Passione e morte, e rimpiazzare il Vangelo di Cristo con l’osservanza delle cerimonie legali antiche. La salvezza invece si ottiene solo grazie alla fede (vivificata dalla carità) in Cristo. I giudaizzanti sono bestemmiatori e votati alla dannazione; tal è, infatti, il significato dell’anatema (v. 8) che equivale all’herem ebraico, che designava gli scomunicati come votati alla perdizione per motivi religiosi. Neppure un apostolo e s. Paolo stesso potrebbe sfuggire alla dannazione, se predicasse il contro-vangelo giudeo-cristiano (v. 9).
Nel capitolo II ai versi 3-4, l’Apostolo rivela che nel 50 circa era salito al Concilio apostolico di Gerusalemme, assieme a Tito, il quale essendo greco non era circonciso. I giudaizzanti gridarono allo scandalo, poiché la presenza di un incirconciso a Gerusalemme e ad un Concilio era ritenuta da loro intollerabile e quindi chiesero che fosse circonciso. L’Apostolo qualifica i giudaizzanti come ‘falsi fratelli intrusi’ (v. 4), “che si erano infiltrati per spiare la libertà nostra, che abbiamo in Gesù Cristo e renderci schiavi” (v. 4). Il loro scopo era d’imporre la Legge giudaica come necessaria alla salvezza, abolendo la grazia che rende liberi dal peccato in Gesù Cristo. I cristiani giudaizzanti più che a Cristo credevano al vecchio cerimoniale mosaico, ma l’antico cerimoniale è oramai – con l’avvento di Gesù – incapace di santificare; esso è stato rimpiazzato dalla grazia di Cristo in virtù dei suoi meriti. “Se la giustificazione vien dalla Legge cerimoniale, certamente Gesù è morto in vano o senza scopo” (v. 21). Il giudeo-cristianesimo è l’annullamento radicale e totale del Sacrificio di Gesù e della grazia cristiana che ne deriva, in breve è l’apostasia e la distruzione del cristianesimo apostolico. “Se vi lasciate circoncidere, Cristo non vi gioverà a nulla” (V, 2).
Nella II Epistola ai Corinti san Paolo specifica che i giudaizzanti sono “falsi apostoli, operai fraudolenti e mentitori, che si camuffano da Apostoli di Cristo, [come] lo stesso satana si traveste da angelo di luce” (XI, 13-14). Il giudeo-cristianesimo è la contro-chiesa o la ‘sinagoga di satana’ (Apoc., II, 9) che vuole carpire la buona fede dei semplici con un falso zelo e una virtù simulata.
Cripto-giudaismo milaniano
Don Milani apparteneva all’alta borghesia fiorentina di origini ebraiche da parte di padre e di madre3. “Lorenzo Milani rimarrà per sempre intimamente sensibile di fronte alla sua ebraicità, senza ostentarla ma vivendola nella propria interiorità di uomo” (E. Levrero, cit., p. 9).
La rottura col mondo borghese
La “conversione” di Lorenzo Milani al cristianesimo avvenne nel 1943 e fu seguìta immediatamente dalla sua “vocazione” ed entrata in seminario. Tale scelta viene letta dal Levrero (cit., p. 10) come unarottura con il mondo borghese e uno schierarsi con il mondo operaiopiuttosto che come una rottura con l’ebraismo post-biblico e uno schierarsi con Cristo e la Nuova Alleanza.
Forse la storia della conversione ‘cristiana’ di Milani è stata letta in modo troppo unilaterale, poiché la sua è prima di tutto una conversione ‘al suo Dio’ che passa attraverso la liturgia cattolica per arrivare o ritornare alla dimensione israelitica della fede” (cit., p. 99). L’ebraismo post-biblico non è una fede dogmatica, ma è l’appartenenza e il legame che il soggetto riconosce con la storia del popolo cui sente di appartenere (cfr. op. cit., p. 100).
Indipendenza assoluta
Così come ogni ebreo è libero nell’interpretazione del Testo sacro e non c’è nessun magistero e nessuna autorità che debba essere ascoltata, Milani si sente assolutamente libero nell’interpretare la vita, il sacerdozio e il mondo che lo circonda” (cit., p. 107); la sua scuola è fondata su questa libertà assoluta e soggettiva, che risente impressionantemente dell’eredità talmudica. La pedagogia di don Milani è destinata alla “emancipazione dell’uomo, ossia all’affrancamento da ogni oppressione, all’indipendenza da ogni soggezione, all’autonomia da ogni servitù, alla liberazione da ogni subalternità” (cit., p. 118).
Pedagogia ebraica
Inoltre l’attività pedagogica di don Lorenzo ha “una singolare comunanza con una yeshivah ebraica, la scuola rabbinica dove i giovani sono avviati allo studio del Talmud” (cit., p. 10). Nella scuola di don Milani ci si forma attraverso la “libertà di pensiero, libertà di conoscenza e di dissentire rispetto a strutture sociali che opprimono i più deboli” (ivi).
L’Autore propone una lettura della vita di don Milani alla luce dell’ebraismo. “La vicenda umana di Milani viene così ri-esplorata congiungendo ebraismo e cristianesimo. […]. Forse proprio all’ebraismo milaniano è possibile ricondurre i segni di un’esistenza così controversa. […]. La sua pedagogia pare essere la via che conduce al suo ebraismo” (cit., p. 11).
Ebraismo laicista
Ma il suo ebraismo come quello dei suoi genitori non era accompagnato da nessuna pratica religiosa, tutto in lui è contrassegnato da una grande laicità. Levrero scrive: «La tradizione culturale dei Milani è rigorosamente laica, quando non esplicitamente anticlericale; le radici culturali della stessa Alice Weiss [la madre di don Lorenzo, ndr] non sono accompagnate da nessuna pratica religiosa. È, tuttavia, a séguito di alcuni episodi di intolleranza, in particolare nei confronti del figlio Adriano sui banchi dell’istituto religioso da lui frequentato, che Albano Milani decide di confermare con un rito cristiano la unione civile con Alice Weiss e battezzare i propri figli. L’eco dell’ascesa politica del partito nazista di Hitler in Germania e i suoi proclami antisemiti, ma anche l’antisemitismo strisciante del fascismo italiano suggeriscono questa opzione. […]. Il 29 giugno 1933 ha luogo quello che Lorenzo Milani anni più tardi definirà battesimo fascista”» (cit., p. 24), perché il suo è stato un battesimo per difendersi dalle Leggi razziali e non per diventare cristiano.
Dal battesimo di convenienza alla vocazione
Circa 10 anni più tardi, nel giugno del 1943, Lorenzo Milani conosce il sacerdote don Raffaele Bensi, insegnante di religione in alcuni licei di Firenze, molto noto tra i giovani della città toscana; è allora che Lorenzo si converte al cristianesimo (il battesimo, come abbiamo visto, era stata una pura formalità), matura la decisione di diventare sacerdote e nel settembre del 1943 entra nel seminario di Firenze.
Alcuni autori si chiedono se sia “possibile considerare l’esperienza di Milani, prete nella Chiesa cattolica, prescindendo da quell’appartenenza al popolo ebraico che gli deriva dalla sua famiglia” (F. Braccini – R. Taddei, La scuola laica del prete. Don Milani, Roma, Armando, 1999, p. 185). Certamente la famiglia Milani-Weiss è religiosamente agnostica, lontana dall’ortodossia ebraica e cristiana. Ma l’ebraismo, nell’Europa degli anni trenta e Quaranta del Novecento, non è soltanto una religione, è l’appartenenza ad un popolo, che viene visto da Lorenzo come il povero, il debole, l’operaio, di qui la sua pedagogia pauperistica. Perciò Mario Gennari ritiene che Lorenzo non possa “non aver riflettuto sulle proprie origini giudee […] appunto in ragione del clima politico antisemita in cui era avvenuta la sua formazione di adolescente” (M. Gennari, L’apocalisse di don Milani, Milano, Scheiwiller, 2008, p. 23).
Il cammino di Lorenzo divenuto sacerdote è tra i poveri, che gli ricordano il suo popolo oppresso, “ed accentua il bisogno di riconoscere la propria filiazione al popolo ebraico” (P. Levrero, cit., p. 47).
Il dialogo con le “periferie”
È proprio “la sua sensibilità di convertito, ma anche il percepire la propria ebraicità che fa di Milani un sacerdote attento all’urgenza di tessere un dialogo culturale e spirituale con coloro che chiama i ‘lontani’. È la storia a suggerirgli l’esigenza del dialogo coi lontani: comunisti, ebrei, protestanti” (cit., p. 48). Tutto ciò lo porta a scrivere: “Noi preti poi abbiamo necessità (e ne avremo sempre di più) di imbeverci di cultura semitica” (L. Milani, Esperienze pastorali, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1958, p. 419). Don Lorenzo dichiara all’amico Giordano Pecorini di essere “mezzo ebreo” e ciò lo porta a “costituire la propria esistenza, ma anche la propria fede cristiana nel retaggio ebraico” e di scorgere “l’umanità di Gesù nella sua radice ebraica” (cit., p. 49). Inoltre afferma di sentirsi di parte giudaico-pluto-demo-massonica” (ivi) e riconosce nei poveri di Calenzano (dove sarà parroco dal 1947 al 1955) e poi di Barbiana (in cui sarà parroco dal 1955 alla sua morte avvenuta nel 1967) la sua personalità e vocazione “cristiano-calenzanese-ebraico-proletario-operaia” (cit., p. 51).
Giorgio La Pira diceva di lui: “Don Milani è un vero ebreo, ha la sensibilità degli ebrei, ha una radice ebrea a cui non ha mai rinunciato, per cui io mi sento particolarmente vicino proprio per questo aspetto” (cit., p. 53).
Puntigliosità talmudica
Attenzione! l’ebraismo di don Milani non è quello veterotestamentario perfezionato dal Nuovo Testamento, ma è quello talmudico o post-biblico. Tullio De Mauro scrive: “Milani adempiva la Costituzione con il rigore e la puntigliosità tipici della tradizione talmudica. Credo che nelle letture dei suoi testi di prete cattolico, ma anche nelle lettura dei testi laici vi sia una vera e propria attitudine che chiamerei talmudica. […]. Credo che in don Milani ci sia questa radice israelitica, anzi vorrei dire più precisamente, talmudica. […]. Ecco, io vi propongo di vedere in don Milani un cattolico israelitacol rigorismo intellettuale talmudico rabbinico e col profetismo della tradizione israelitica” (T. De Mauro, Quel che c’era intorno a don Milani, in Segno, n. 187, 1997, pp. 7-15).
I poveri di Calenzano e Barbiana gli offrono la “possibilità di riappropriarsi del suo originario ebraismo come uomo e cristiano convertito tra i poveri” (cit., p. 56). La stessa scuola di Calenzano/Barbiana è intesa da don Milani come una scuola ebraica: “Milani si fa interprete di un ebraismo laicizzato che costituisce l’architettura intima della sua scuola. Nell’essere una scuola della parola, o, per sua stessa ammissione, ‘Parola scuola’, essa diviene luogo pedagogico affine alle yeshivot – le scuole rabbiniche – della tradizione ebraica” (cit., p. 62). L’ebraismo talmudico laicizzato e il “cristianesimo” laicista di don Milani sono l’architrave della scuola di Calenzano/Barbiana (cfr. L. Milani, Esercizi pastorali, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1958, p. 237).
L’ebraismo di don Lorenzo è un ebraismo laicizzato, assimilato ed emancipato, che fa del laicismo il principio e fondamento della sua scuola e del suo modo d’insegnamento. Le radici ebraiche di don Milani non sono essenzialmente religiose veterotestamentarie, ma son soprattutto immanentistiche, talmudiche, cabalistiche (cfr. G. Scholem, Il nome di Dio e la teoria cabalistica del linguaggio, Milano, Adelphi, 1998;Le grandi correnti della mistica ebraica, Torino, Einaudi, 1993; M. Claravezza, La mistica della formazione nel Sefer Yetzirah, Genova, Diss., 2009; G. Busi, La qabbalah, Bari, Laterza, 1998; G. Busi – E. Loewenthal, Mistica ebraica, Torino, Einaudi, 1995). La scuola milaniana è contrassegnata dallo studio con il quale il maestro e gli allievi si emancipano e si liberano da ogni autorità ed assumono la coscienza del proprio “Io” e della società come somma dei diversi “Io”. Don Milani “prete e rabbino insieme, avverte il dovere di laicizzare la conoscenza e […] riconosce nella civiltà moderna lo scontro frontale tra le classi sociali, come prete e come maestro si schiera dalla parte di quella classe sociale la cui identità soggettiva non è data dal proletariato bensì dal povero, dall’ultimo, dall’emarginato, dal respinto, da colui che è bocciato dalla scuola borghese” (cit., p. 95), poiché nel povero don Milani vede il suo popolo: Israele.
Fede nella Chiesa?
La sua fede nella Chiesa è assai problematica se si pensa a quanto ha scritto all’amico Giordano Pecorini: “Se non faccio mai discorsi spiritualied elevati è perché non li penso e non ci credo” (Don Milani? Chi era costui?, Milano, Baldini & Castoldi, 1996 , p. 146). Inoltre si legge nei suoi scritti: “Non potrei vivere nella Chiesa neanche un minuto se dovessi viverci in atteggiamento difensivo. Io ci parlo e ci scrivo nella più assoluta libertà di parola” (Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, Milano, Mondadori, 1970, p. 133).
Epilogo
Paolo Levrero conclude così il suo libro, molto ben documentato, “Dunque, Milani prete ebreo. Milani, rabbi e maestro. Milani ebreo errante. Con il senso profondo della storia e la capacità di costruire utopie” (cit., p. 122).
In effetti, sì. Le utopie di don Milani sono principalmente due: 1°) il giudeo-cristianesimo, che è una contraddizione in terminis e come tale è utopico volerlo realizzare; 2°) l’educazione senza metodo, che si basa sull’amicizia e l’eguaglianza tra allievo e maestro, la quale non può portare frutti di vera conoscenza nei discenti e di vera formazione educatrice da parte degli insegnanti. Tutte le altre utopie, enumerate nel corso dell’articolo, derivano specialmente dalla prima
Purtroppo don Milani ha percorso queste due vie sino in fondo e quel che è ancor più triste è la sua “canonizzazione” da parte di Bergoglio, che lo mostra come esempio da seguire, mentre sarebbe piuttosto da evitare.
La sua dottrina e la sua vita son piene di rivolta e odio di classe, d’insubordinazione ad ogni Autorità (civile ed ecclesiastica), di indipendenza assoluta, di mancanza di spirito didattico, di laicismo e soprattutto di confusione teologica, la quale oscilla tra il cripto-giudaismo e il giudeo-cristianesimo.
In quest’epoca di confusione dottrinale e morale, la persona di don Milani aggiunge un nuovo tassello alla costruzione del caotico Nuovo Ordine Mondiale quale autostrada al Regno dell’Anticristo e nello stesso tempo ci mostra come il parossismo cui è arrivata la a-teologia di Bergoglio faccia un tutt’uno con il Concilio Vaticano II e l’immediato post-concilio della “Antica Alleanza mai revocata” (Giovanni Paolo II, Magonza, 1981) e degli “Ebrei fratelli maggiori dei cristiani nella fede di Abramo” (Giovanni Paolo II, Tempio maggiore di Roma, 1986).
Giustamente San Tommaso d’Aquino, ripreso da San Pio X, diceva: “Parvus error in principio fit magnus in termino / Un piccolo errore iniziale diventa grande al suo termine”.
d. Curzio Nitoglia
NOTE
1Il libro consta di 140 pagine e costa 14 euro.
2 F. SpadaforaSan Paolo: le Lettere, Genova, Quadrivium, 1990, p. 30.
3Suo padre Albano Milani, ebreo di origine toscana, nel 1919 sposa Alice Weiss, ebrea di origine boema, facente allora parte dell’ebraismo triestino, molto propenso all’assimilazione e all’integrazione, che soprattutto dopo l’alleanza tra Germania e Italia sentì crescere “il ricorso alla conversione al cristianesimo” (cit., p. 18), ma sempre in una forma secolarizzata, impregnata di agnosticismo e aperta ai matrimoni misti. La signora Weiss era di origini askenazite da parte di padre, mentre da parte di madre era sefardita (cfr. L. MilaniI care ancora. Lettere, progetti, appunti e carte varie inedite e/o restaurate, Bologna, Editrice Missionaria Italiana, 200, p. 396 ss.).

mercoledì 19 luglio 2017

Il nuovo Pantheon dei martiri di papa Francesco

(di Roberto de Mattei) Tra i tanti “gruppi di lavoro” costituiti da papa Francesco c’è la Commissione mista di Esperti croati cattolici e serbi ortodossi per una rilettura in comune della figura del Cardinale Alojzije Stepinac, Arcivescovo di Zagabria che, nei giorni 12 e 13 luglio 2017, ha tenuto, presso la Domus Sanctae Marthae in Vaticano, la sua ultima riunione, sotto la presidenza del padre Bernard Ardura, presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche.
Il comunicato congiunto della Commissione, pubblicato dalla Sala Stampa della Santa Sede il 13 luglio, afferma che «lo studio della vita del Cardinale Stepinac ha insegnato che nella storia tutte le Chiese hanno crudelmente sofferto diverse persecuzioni e hanno i loro martiri e confessori della fede. A tale riguardo, i membri della Commissione hanno convenuto sulla eventualità di una futura collaborazione, in vista di un’opera comune, per condividere la memoria dei martiri e dei confessori delle due Chiese».
Questa affermazione, che sintetizza sei incontri di lavoro svolti dalla Commissione, capovolge la concezione cattolica di martirio. Il martirio infatti, secondo la Chiesa cattolica, è la morte affrontata per testimoniare la Verità. Non una qualsiasi verità, ma una Verità di fede o di morale cattolica. Nella Chiesa si celebra, ad esempio, il martirio di san Giovanni Battista, che subì la morte per aver ripreso pubblicamente l’adulterio di Erode. Vale il detto di sant’Agostino: martyres non facit poena, sed causa (Enarrationes in Psalmos, 34, 13, col. 331). Non è la morte che fa il martire, ma la ragione della morte, inflitta in odio alla fede o alla morale cattolica.
Per la commissione presieduta dal padre Ardura, invece, martyres non facit causa, sed poena: non altro significa l’equiparazione, «dei martiri e dei confessori delle due Chiese», la cattolica e l’ortodossa. Questo principio, secondo il comunicato, può essere esteso a “tutte le Chiese”, che hanno avuto “martiri” e “confessori” delle rispettive fedi.
Ma se martire è colui che subisce la morte per difendere la propria verità, perché non considerare martire quel cristiano sui generis che fu Giordano Bruno, messo al rogo dalla Chiesa cattolica a Campo de’ Fiori, il 17 febbraio 1600? In fondo la massoneria lo ha sempre considerato un “martire” della religione della libertà e come tale l’apostata domenicano è stato onorato lo scorso 17 febbraio, presso la sede del Grande Oriente d’Italia.
È stato proprio un sacerdote, don Francesco Pontoriero, della diocesi di Mileto, che, nella sede della Massoneria italiana, ha ricostruito le scelte di Giordano Bruno «fino all’ultima, quello che lo portò a far ritorno a Venezia, dove pendeva su di lui una condanna a morte, e quindi ad abbracciare il martirio, nella consapevolezza che solo così il suo messaggio di libertà sarebbe arrivato lontano nel tempo».
L’incontro di Santa Marta è stato preceduto di due giorni da un provvedimento di papa Francesco sfuggito all’attenzione generale: il Motu proprio Maiorem hac dilectionem, dell’11 luglio, che introduce «l’offerta della vita» come una nuova fattispecie dell’iter di beatificazione e canonizzazione, distinta dalle modalità tradizionali del martirio e dell’eroicità delle virtù.
In un articolo pubblicato lo stesso 11 luglio sull’Osservatore Romano, l’arcivescovo Marcello Bartolucci, segretario della Congregazione delle cause dei santi, spiega che finora, le tre vie prestabilite per giungere alla beatificazione, erano quelle del martirio, delle virtù eroiche e della cosiddetta “beatificazione equipollente”. Ora a queste tre viene aggiunta una quarta via, «dell’offerta della vita» che «intende valorizzare una eroica testimonianza cristiana, finora senza una procedura specifica, proprio perché non rientra del tutto nella fattispecie del martirio e neppure in quella delle virtù eroiche».
Il Motu proprio precisa che l’offerta della vita, affinché sia valida ed efficace per la beatificazione di un Servo di Dio, deve rispondere ai seguenti criteri: a) offerta libera e volontaria della vita ed eroica accettazione propter caritatem di una morte certa e a breve termine; b) nesso tra l’offerta della vita e la morte prematura; c) esercizio, almeno in grado ordinario, delle virtù cristiane prima dell’offerta della vita e, poi, fino alla morte; d) esistenza della fama sanctitatis et signorum, almeno dopo la morte; e. necessità del miracolo per la beatificazione, avvenuto dopo la morte del Servo di Dio e per sua intercessione.
Ma cosa significa propter caritatem? La carità, definita da san Tommaso come un’amicizia dell’uomo con Dio e di Dio con l’uomo (Summa Theologiae, II-IIae, q, 23, a. 1) è la più eccellente di tutte le virtù. Essa consiste nell’amare Dio e, in Dio, il nostro prossimo. La carità non è dunque quella virtù che ci porta ad amare i nostri simili, in quanto uomini, ma è un atto soprannaturale che ha in Dio il suo fondamento e il suo ultimo fine. La carità ha inoltre un ordine: innanzitutto gli interessi spirituali del nostro prossimo devono prevalere sui suoi interessi materiali. In secondo luogo bisogna amare coloro che ci sono vicini prima di coloro che ci sono lontani (Summa Theologiae, II-IIae,II-IIae, q. 26, a. 7), e se mai ci dovesse essere contrasto tra gli interessi dei vicini e quelli dei lontani bisognerebbe far prevalere i primi sui secondi. È questa la nuova visione del Motu proprio papale? C’è da dubitarne.
Intervistato dal settimanale dell’arcidiocesi di Gorizia, Voce Isontina, mons. Vincenzo Paglia, nuovo presidente della Pontificia Accademia per la Vitaha espresso la propria gioia per il documento di papa Francesco anche perché, sottolinea, «ne sono stato in qualche modo coinvolto come postulatore della Causa di beatificazione di mons. Oscar Arnulfo Romero». «L’arcivescovo di El Salvador, infatti, – prosegue – non è stato ucciso da persecutori atei affinché rinnegasse la fede nella Trinità: è stato assassinato da cristiani perché voleva che il Vangelo fosse vissuto nella sua profonda intuizione di dono della vita».
Mons. Romero offre dunque il modello di una “offerta della vita” equiparata al martirio. La “quarta via” che, secondo il Motu proprio di papa Francesco, porterà alla canonizzazione è la morte subita non in odio alla fede, ma come conseguenza di una scelta politica a servizio dei poveri, degli immigrati e delle “periferie” della terra.
Si potranno escludere dalla beatificazione i preti guerriglieri morti propter caritatem, nelle rivoluzioni politiche degli ultimi decenni? Ma allora perché non equiparare ai martiri, e avviare alla beatificazione, anche tutti quei cristiani che hanno offerto la loro vita in una guerra giusta? Essi, morendo per loro patria, hanno compiuto un eccellente atto di carità, dal momento che «il bene della nazione è superiore al bene individuale» (Aristotele, Etica, I, cap. II, n.8).
La Chiesa cattolica non li ha mai considerati martiri, proprio perché manca la motivazione religiosa, ma sembrerebbe ingiusto privarli di uno spazio nel nuovo Pantheon dei martiri di papa Francesco. (Roberto de Mattei)

martedì 18 luglio 2017

“Solo un cieco può negare che nella Chiesa ci sia grande confusione”. Intervista al cardinale Caffarra

Bologna. “Credo che vadano chiarite diverse cose. La lettera – e i dubia allegati – è stata lungamente riflettuta, per mesi, e lungamente discussa tra di noi. Per quanto mi riguarda, è stata anche lungamente pregata davanti al Santissimo Sacramento”. Il cardinale Carlo Caffarra premette questo, prima di iniziare la lunga conversazione con il Foglio sull’ormai celebre lettera “dei quattro cardinali” inviata al Papa per chiedergli chiarimenti in relazione ad Amoris laetitia, l’esortazione che ha tirato le somme del doppio Sinodo sulla famiglia e che tanto dibattito – non sempre con garbo ed eleganza – ha scatenato dentro e fuori le mura vaticane. “Eravamo consapevoli che il gesto che stavamo compiendo era molto serio. Le nostre preoccupazioni erano due. La prima era di non scandalizzare i piccoli nella fede. Per noi pastori questo è un dovere fondamentale. La seconda preoccupazione era che nessuna persona, credente o non credente, potesse trovare nella lettera espressioni che anche lontanamente suonassero come una benché minima mancanza di rispetto verso il Papa. Il testo finale quindi è il frutto di parecchie revisioni: testi rivisti, rigettati, corretti”. Fatte queste premesse, Caffarra entra in materia.

“Che cosa ci ha spinto a questo gesto? Una considerazione di carattere generale-strutturale e una di carattere contingente-congiunturale. Iniziamo dalla prima. Esiste per noi cardinali il dovere grave di consigliare il Papa nel governo della Chiesa. E’ un dovere, e i doveri obbligano. Di carattere più contingente, invece, vi è il fatto – che solo un cieco può negare – che nella Chiesa esiste una grande confusione, incertezza, insicurezza causate da alcuni paragrafi di Amoris laetitia. In questi mesi sta accadendo che sulle stesse questioni fondamentali riguardanti l’economia sacramentale (matrimonio, confessione ed eucaristia) e la vita cristiana, alcuni vescovi hanno detto A, altri hanno detto il contrario di A. Con l’intenzione di interpretare bene gli stessi testi”.
E “questo è un fatto, innegabile, perché i fatti sono testardi, come diceva David Hume. La via di uscita da questo ‘conflitto di interpretazioni’ era il ricorso ai criteri interpretativi teologici fondamentali, usando i quali penso che si possa ragionevolmente mostrare che Amoris laetitia non contraddice Familiaris consortio. Personalmente, in incontri pubblici con laici e sacerdoti ho sempre seguito questa via”. Non è bastato, osserva l’arcivescovo emerito di Bologna. “Ci siamo resi conto che questo modello epistemologico non era sufficiente. Il contrasto tra queste due interpretazioni continuava. C’era un solo modo per venirne a capo: chiedere all’autore del testo interpretato in due maniere contraddittorie qual è l’interpretazione giusta. Non c’è altra via. Si poneva, di seguito, il problema del modo con cui rivolgersi al Pontefice. Abbiamo scelto una via molto tradizionale nella Chiesa, i cosiddetti dubia”.

Perché? “Perché si trattava di uno strumento che, nel caso in cui secondo il suo sovrano giudizio il Santo Padre avesse voluto rispondere, non lo impegnava in risposte elaborate e lunghe. Doveva solo rispondere Sì o No. E rimandare, come spesso i Papi hanno fatto, ai provati autori (in gergo: probati auctores) o chiedere alla Dottrina della fede di emanare una dichiarazione congiunta con cui spiegare il Sì o il No. Ci sembrava la via più semplice. L’altra questione che si poneva era se farlo in privato o in pubblico. Abbiamo ragionato e convenuto che sarebbe stata una mancanza di rispetto rendere tutto pubblico fin da subito. Così si è fatto in modo privato, e solo quando abbiamo avuto la certezza che il Santo Padre non avrebbe risposto, abbiamo deciso di pubblicare
E’ questo uno dei punti su cui maggiormente s’è discusso, con relative polemiche assortite. Da ultimo, è stato il cardinale Gerhard Ludwig Müller, prefetto dell’ex Sant’Uffizio, a giudicare sbagliata la pubblicazione della lettera. Caffarra spiega: “Abbiamo interpretato il silenzio come autorizzazione a proseguire il confronto teologico. E, inoltre, il problema coinvolge così profondamente sia il magistero dei vescovi (che, non dimentichiamolo, lo esercitano non per delega del Papa ma in forza del sacramento che hanno ricevuto) sia la vita dei fedeli. Gli uni e gli altri hanno diritto di sapere. Molti fedeli e sacerdoti dicevano ‘ma voi cardinali in una situazione come questa avete l’obbligo di intervenire presso il Santo Padre. Altrimenti per che cosa esistete se non aiutate il Papa in questioni così gravi?’. Cominciava a farsi strada lo scandalo di molti fedeli, quasi che noi ci comportassimo come i cani che non abbaiano di cui parla il Profeta. Questo è quanto sta dietro a quelle due pagine”.

Eppure le critiche sono piovute, anche da confratelli vescovi o monsignori di curia: “Alcune persone continuano a dire che noi non siamo docili al magistero del Papa. E’ falso e calunnioso. Proprio perché non vogliamo essere indocili abbiamo scritto al Papa. Io posso essere docile al magistero del Papa se so cosa il Papa insegna in materia di fede e di vita cristiana. Ma il problema è esattamente questo: che su dei punti fondamentali non si capisce bene che cosa il Papa insegna, come dimostra il conflitto di interpretazioni fra vescovi. Noi vogliamo essere docili al magistero del Papa, però il magistero del Papa deve essere chiaro. Nessuno di noi – dice l’arcivescovo emerito di Bologna – ha voluto ‘obbligare’ il Santo Padre a rispondere: nella lettera abbiamo parlato di sovrano giudizio. Semplicemente e rispettosamente abbiamo fatto domande. Non meritano infine attenzione le accuse di voler dividere la Chiesa. La divisione, già esistente nella Chiesa, è la causa della lettera, non il suo effetto. Cose invece indegne dentro la Chiesa sono, in un contesto come questo soprattutto, gli insulti e le minacce di sanzioni canoniche”. Nella premessa alla lettera si constata “un grave smarrimento di molti fedeli e una grande confusione in merito a questioni assai importanti per la vita della Chiesa”.

In che cosa consistono, nello specifico, la confusione e lo smarrimento? Risponde Caffarra: “Ho ricevuto la lettera di un parroco che è una fotografia perfetta di ciò che sta accadendo. Mi scriveva: ‘Nella direzione spirituale e nella confessione non so più che cosa dire. Al penitente che mi dice: vivo a tutti gli effetti come marito con una donna che è divorziata e ora mi accosto all’eucarestia, propongo un percorso, in ordine a correggere questa situazione. Ma il penitente mi ferma e risponde subito: guardi, padre, il Papa ha detto che posso ricevere l’eucaristia, senza il proposito di vivere in continenza. Io non ne posso più di questa situazione. La Chiesa mi può chiedere tutto, ma non di tradire la mia coscienza. E la mia coscienza fa obiezione a un supposto insegnamento pontificio di ammettere all’eucaristia, date certe circostanze, chi vive more uxorio senza essere sposato’. Così scriveva il parroco. La situazione di molti pastori d’anime, intendo soprattutto i parroci – osserva il cardinale – è questa: si ritrovano sulle spalle un peso che non sono in grado di portare. E’ a questo che penso quando parlo di grande smarrimento. E parlo dei parroci, ma molti fedeli restano ancor più smarriti. Stiamo parlando di questioni che non sono secondarie. Non si sta discutendo se il pesce rompe o non rompe l’astinenza. Si tratta di questioni gravissime per la vita della Chiesa e per la salvezza eterna dei fedeli. Non dimentichiamolo mai: questa è la legge suprema nella Chiesa, la salvezza eterna dei fedeli. Non altre preoccupazioni. Gesù ha fondato la sua Chiesa perché i fedeli abbiano la vita eterna, e l’abbiano in abbondanza”.

La divisione cui si riferisce il cardinale Carlo Caffarra è originata innanzitutto dall’interpretazione dei paragrafi di Amoris laetitia che vanno dal numero 300 al 305. Per molti, compresi diversi vescovi, qui si trova la conferma di una svolta non solo pastorale bensì anche dottrinale. Altri, invece, che il tutto sia perfettamente inserito e in continuità con il magistero precedente. Come si esce da tale equivoco? “Farei due premesse molto importanti. Pensare una prassi pastorale non fondata e radicata nella dottrina significa fondare e radicare la prassi pastorale sull’arbitrio. Una Chiesa con poca attenzione alla dottrina non è una Chiesa più pastorale, ma è una Chiesa più ignorante. La Verità di cui noi parliamo non è una verità formale, ma una Verità che dona salvezza eterna: Veritas salutaris, in termini teologici. Mi spiego. Esiste una verità formale. Per esempio, voglio sapere se il fiume più lungo del mondo è il Rio delle Amazzoni o il Nilo. Risulta che è il Rio delle Amazzoni. Questa è una verità formale. Formale significa che questa conoscenza non ha nessuna relazione con il mio modo di essere libero. Anche se la risposta fosse stata il contrario, non sarebbe cambiato nulla sul mio modo di essere libero. Ma ci sono verità che io chiamo esistenziali. Se è vero – come Socrate aveva già insegnato – che è meglio subire un’ingiustizia piuttosto che compierla, enuncio una verità che provoca la mia libertà ad agire in modo molto diverso che se fosse vero il contrario. Quando la Chiesa parla di verità – aggiunge Caffarra – parla di verità del secondo tipo, la quale, se obbedita dalla libertà, genera la vera vita. Quando sento dire che è solo un cambiamento pastorale e non dottrinale, o si pensa che il comandamento che proibisce l’adulterio sia una legge puramente positiva che può essere cambiata (e penso che nessuna persona retta possa ritenere questo), oppure significa ammettere sì che il triangolo ha generalmente tre lati, ma che c’è la possibilità di costruirne uno con quattro lati. Cioè, dico una cosa assurda. Già i medievali, dopotutto, dicevano: theoria sine praxi, currus sine axi; praxis sine theoria, caecus in via”.


La seconda premessa che l’arcivescovo di Bologna fa riguarda “il grande tema dell’evoluzione della dottrina, che ha sempre accompagnato il pensiero cristiano. E che sappiamo è stato ripreso in maniera splendida dal beato John Henry Newman. Se c’è un punto chiaro, è che non c’è evoluzione laddove c’è contraddizione. Se io dico che s è p e poi dico che s non è p, la seconda proposizione non sviluppa la prima ma la contraddice. Già Aristotile aveva giustamente insegnato che enunciare una proposizione universale affermativa (e. g. ogni adulterio è ingiusto) e allo stesso tempo una proposizione particolare negativa avente lo stesso soggetto e predicato (e. g. qualche adulterio non è ingiusto), non si fa un’eccezione alla prima. La si contraddice. Alla fine, se volessi definire la logica della vita cristiana, userei l’espressione di Kierkegaard: ‘Muoversi sempre, rimanendo sempre fermi nello stesso punto’”.

Il problema, aggiunge il porporato, “è di vedere se i famosi paragrafi nn. 300-305 di Amoris laetitia e la famosa nota n. 351 sono o non sono in contraddizione con il magistero precedente dei Pontefici che hanno affrontato la stessa questione. Secondo molti vescovi, è in contraddizione. Secondo molti altri vescovi, non si tratta di contraddizione ma di uno sviluppo. Ed è per questo che abbiamo chiesto una risposta al Papa”. Si arriva così al punto più conteso e che tanto ha animato le discussioni sinodali: la possibilità di concedere ai divorziati e risposati civilmente il riaccostamento all’eucaristia. Cosa che non trova esplicitamente spazio in Amoris laetitia, ma che a giudizio di molti è un fatto implicito che rappresenta nulla di più se non un’evoluzione rispetto al n. 84 dell’esortazione Familiaris consortio di Giovanni Paolo II.

“Il problema nel suo nodo è il seguente”, argomenta Caffarra: “Il ministro dell’eucaristia (di solito il sacerdote) può dare l’eucaristia a una persona che vive more uxorio con una donna o con uomo che non è sua moglie o suo marito, e non intende vivere nella continenza? Le risposte sono solo due: Sì oppure No. Nessuno per altro mette in questione che Familiaris consortioSacramentum unitatis, il Codice di diritto canonico, e il Catechismo della Chiesa cattolica alla domanda suddetta rispondano No. Un No valido finché il fedele non propone di abbandonare lo stato di convivenza more uxorio. Amoris laetitia ha insegnato che, date certe circostanze precise e fatto un certo percorso, il fedele potrebbe accostarsi all’eucaristia senza impegnarsi alla continenza? Ci sono vescovi che hanno insegnato che si può. Per una semplice questione di logica, si deve allora anche insegnare che l’adulterio non è in sé e per sé male. Non è pertinente appellarsi all’ignoranza o all’errore a riguardo dell’indissolubilità del matrimonio: un fatto purtroppo molto diffuso. Questo appello ha un valore interpretativo, non orientativo. Deve essere usato come metodo per discernere l’imputabilità delle azioni già compiute, ma non può essere principio per le azioni da compiere. Il sacerdote – dice il cardinale – ha il dovere di illuminare l’ignorante e correggere l’errante”.
“Ciò che invece Amoris laetitia ha portato di nuovo su tale questione, è il richiamo ai pastori d’anime di non accontentarsi di rispondere No (non accontentarsi però non significa rispondere Sì), ma di prendere per mano la persona e aiutarla a crescere fino al punto che essa capisca che si trova in una condizione tale da non poter ricevere l’eucaristia, se non cessa dalle intimità proprie degli sposi. Ma non è che il sacerdote possa dire ‘aiuto il suo cammino dandogli anche i sacramenti’. Ed è su questo che nella nota n. 351 il testo è ambiguo. Se io dico alla persona che non può avere rapporti sessuali con colui che non è suo marito o sua moglie, però per intanto, visto che fa tanto fatica, può averne… solo uno anziché tre alla settimana, non ha senso; e non uso misericordia verso questa persona. Perché per porre fine a un comportamento abituale – un habitus, direbbero i teologi – occorre che ci sia il deciso proposito di non compiere più nessun atto proprio di quel comportamento. Nel bene c’è un progresso, ma fra il lasciare il male e iniziare a compiere il bene, c’è una scelta istantanea, anche se lungamente preparata. Per un certo periodo Agostino pregava: ‘Signore, dammi la castità, ma non subito’”. A scorrere i dubia, pare di comprendere che in gioco, forse più di Familiaris consortio, ci sia Veritatis splendor. E’ così?

“Sì”, risponde Carlo Caffarra. “Qui è in questione ciò che insegna Veritatis splendor. Questa enciclica (6 agosto 1993) è un documento altamente dottrinale, nelle intenzioni del Papa san Giovanni Paolo II, al punto che – cosa eccezionale ormai nelle encicliche – è indirizzata solo ai vescovi in quanto responsabili della fede che si deve credere e vivere (cfr. n° 5). A essi, alla fine, il Papa raccomanda di essere vigilanti circa le dottrine condannate o insegnate dall’enciclica stessa. Le une perché non si diffondano nelle comunità cristiane, le altre perché siano insegnate (cfr. n° 116). Uno degli insegnamenti fondamentali del documento è che esistono atti i quali possono per se stessi ed in se stessi, a prescindere dalle circostanze in cui sono compiuti e dallo scopo che l’agente si propone, essere qualificati disonesti. E aggiunge che negare questo fatto può comportare di negare senso al martirio (cfr. nn. 90-94). Ogni martire infatti – sottolinea l’arcivescovo emerito di Bologna – avrebbe potuto dire: ‘Ma io mi trovo in una circostanza… in tali situazioni per cui il dovere grave di professare la mia fede, o di affermare l’intangibilità di un bene morale, non mi obbliga più’. Si pensi alle difficoltà che la moglie di Tommaso Moro faceva a suo marito già condannato in prigione: ‘Hai doveri verso la famiglia, verso i figli’. Non è, quindi, solo un discorso di fede. Anche se uso la sola retta ragione, vedo che negando l’esistenza di atti intrinsecamente disonesti, nego che esista un confine oltre il quale i potenti di questo mondo non possono e non devono andare. Socrate è stato il primo in occidente a comprendere questo. La questione dunque è grave, e su questo non si possono lasciare incertezze. Per questo ci siamo permessi di chiedere al Papa di fare chiarezza, poiché ci sono vescovi che sembrano negare tale fatto, richiamandosi ad Amoris laetitia. L’adulterio infatti è sempre rientrato negli atti intrinsecamente cattivi. Basta leggere quanto dice Gesù al riguardo, san Paolo e i comandamenti dati a Mosè dal Signore”. Ma c’è ancora spazio, oggi, per gli atti cosiddetti “intrinsecamente cattivi”. O, forse, è tempo di guardare più all’altro lato della bilancia, al fatto che tutto, dinanzi a Dio, può essere perdonato?

Attenzione, dice Caffarra: “Qui si fa una grande confusione. Tutti i peccati e le scelte intrinsecamente disoneste possono essere perdonate. Dunque ‘intrinsecamente disonesti’ non significa ‘imperdonabili’. Gesù tuttavia non si accontenta di dire all’adultera: ‘Neanch’io ti condanno’. Le dice anche: ‘Va’ e d’ora in poi non peccare più’ (Gv. 8,10). San Tommaso, ispirandosi a sant’Agostino, fa un commento bellissimo, quando scrive che ‘Avrebbe potuto dire: va’ e vivi come vuoi e sii certa del mio perdono. Nonostante tutti i tuoi peccati, io ti libererò dai tormenti dell’inferno. Ma il Signore che non ama la colpa e non favorisce il peccato, condanna la colpa… dicendo: e d’ora in poi non peccare più. Appare così quanto sia tenero il Signore nella sua misericordia e giusto nella sua Verità’ (cfr. Comm. a Gv. 1139). Noi siamo veramente, non per modo di dire, liberi davanti al Signore. E quindi il Signore non ci butta dietro il suo perdono. Ci deve essere un mirabile e misterioso matrimonio tra l’infinita misericordia di Dio e la libertà dell’uomo, il quale deve convertirsi se vuole essere perdonato”.

Chiediamo al cardinale Caffarra se una certa confusione non derivi anche dalla convinzione, radicata pure tra tanti pastori, che la coscienza sia una facoltà per decidere autonomamente riguardo ciò che è bene e ciò che è male, e che in ultima istanza la parola decisiva spetti alla coscienza del singolo. “Ritengo che questo sia il punto più importante di tutti”, risponde. “E’ il luogo dove ci incontriamo e scontriamo con la colonna portante della modernità. Cominciamo col chiarire il linguaggio. La coscienza non decide, perché essa è un atto della ragione; la decisione è un atto della libertà, della volontà. La coscienza è un giudizio in cui il soggetto della proposizione che lo esprime è la scelta che sto per compiere o che ho già compiuto, e il predicato è la qualificazione morale della scelta. E’ dunque un giudizio, non una decisione. Naturalmente, ogni giudizio ragionevole si esercita alla luce di criteri, altrimenti non è un giudizio, ma qualcosa d’altro. Criterio è ciò in base a cui io affermo ciò che affermo e nego ciò che nego. A questo punto risulta particolarmente illuminante un passaggio del Trattato sulla coscienza morale del beato Rosmini: ‘C’è una luce che è nell’uomo e c’è una luce che è l’uomo. La luce che è nell’uomo è la legge di Verità e la grazia. La luce che è l’uomo è la retta coscienza, poiché l’uomo diventa luce quando partecipa alla luce della legge di Verità mediante la coscienza a quella luce confermata’. Ora, di fronte a questa concezione della coscienza morale si oppone la concezione che erige come tribunale inappellabile della bontà o malizia delle proprie scelte la propria soggettività. Qui, per me – dice il porporato – c’è lo scontro decisivo tra la visione della vita che è propria della Chiesa (perché è propria della Rivelazione divina) e la concezione della coscienza propria della modernità”.

“Chi ha visto questo in maniera lucidissima – aggiunge – è stato il beato Newman. Nella famosa Lettera al duca di Norfolk, dice: ‘La coscienza è un vicario aborigeno del Cristo. Un profeta nelle sue informazioni, un monarca nei suoi ordini, un sacerdote nelle sue benedizioni e nei suoi anatemi. Per il gran mondo della filosofia di oggi, queste parole non sono che verbosità vane e sterili, prive di un significato concreto. Al tempo nostro ferve una guerra accanita, direi quasi una specie di cospirazione contro i diritti della coscienza’. Più avanti aggiunge che ‘nel nome della coscienza si distrugge la vera coscienza’. Ecco perché fra i cinque dubia il dubbio numero cinque è il più importante. C’è un passaggio di Amoris laetitia, al n° 303, che non è chiaro; sembra – ripeto: sembra – ammettere la possibilità che ci sia un giudizio vero della coscienza (non invincibilmente erroneo; questo è sempre stato ammesso dalla Chiesa) in contraddizione con ciò che la Chiesa insegna come attinente al deposito della divina Rivelazione. Sembra. E perciò abbiamo posto il dubbio al Papa”.

“Newman – ricorda Caffarra – dice che ‘se il Papa parlasse contro la coscienza presa nel vero significato della parola, commetterebbe un vero suicidio, si scaverebbe la fossa sotto i piedi’. Sono cose di una gravità sconvolgente. Si eleverebbe il giudizio privato a criterio ultimo della verità morale. Non dire mai a una persona: ‘Segui sempre la tua coscienza’, senza aggiungere sempre e subito: ‘Ama e cerca la verità circa il bene’. Gli metteresti nelle mani l’arma più distruttiva della sua umanità”.

tratto dal Il foglio di di Matteo Matzuzzi