Pagine

venerdì 21 ottobre 2016

Buttiglione traduce papa Francesco. Ma dal Cile un filosofo lo boccia



Ricevo e pubblico. L'autore, nato e cresciuto in Venezuela, emigrato in Cile, filosofo, insegna nella Pontificia Universidad Católica de Chile e dirige il Centro de Estudios Tomistas della Universidad Santo Tomás. Ha un blog di nome "El abejorro".
Settimo Cielo ha pubblicato tempo fa un suo commento sul ruolo della Chiesa nella crisi del Venezuela.
Questa che segue è la sua critica all'interpretazione di "Amoris laetitia" fatta da Rocco Buttiglione su "L'Osservatore Romano", un'interpretazione condivisa e apprezzata da vescovi e cardinali vicini a papa Francesco, tra i quali l'arcivescovo di Chicago Blase Cupich, prossimo a ricevere la porpora.
Dal 18 ottobre il professor Buttiglione è titolare di una nuova cattedra di filosofia e storia delle istituzioni europee intitolata a Giovanni Paolo II, nella Pontificia università lateranense di Roma.
*
UNA RISPOSTA ALL'INTERPRETAZIONE DI "AMORIS LAETITIA" FATTA DA ROCCO BUTTIGLIONE
di Carlos A. Casanova
Il 19 luglio scorso il professor Rocco Buttiglione ha pubblicato su "L'Osservatore Romano" un'apologia dell'esortazione apostolica "Amoris laetitia". Tale apologia ha creato in me l'impressione che Buttiglione stia forzando verso un aperto contrasto con il solenne magistero della Chiesa un documento che è soltanto ambiguo. Nella speranza di chiarire il quadro ho deciso di scrivere queste righe.
Il professor Buttiglione sottopone alla nostra attenzione una difficile situazione così immaginata:
"Possiamo immaginare circostanze nelle quali una persona divorziata risposata può trovarsi a vivere una situazione di colpa grave senza piena avvertenza e senza deliberato consenso? È stata battezzata ma mai veramente evangelizzata, ha contratto il matrimonio in modo superficiale, poi è stata abbandonata. Si è unita con una persona che l’ha aiutata in momenti difficili, l’ha amata sinceramente, è diventata un buon padre o una buona madre per i figli avuti dal primo matrimonio.
"Potrebbe proporle di vivere insieme come fratello e sorella; ma che fare se l’altro non accetta? A un certo punto della sua vita tormentata questa persona incontra il fascino della fede, riceve per la prima volta una vera evangelizzazione. Forse il primo matrimonio non è veramente valido, ma non c’è la possibilità di adire un tribunale ecclesiastico o di fornire le prove della invalidità. Non proseguiamo oltre con gli esempi perché non vogliamo entrare in una casistica infinita".
Riguardo a questo caso, Buttiglione sostiene che gli insegnamenti di "Amoris laetitia" sono in linea con il magistero di Giovanni Paolo II in un modo peculiare:
"Una volta i divorziati risposati erano scomunicati ed esclusi dalla vita della Chiesa. Con il nuovo 'Codex iuris canonici' e con 'Familiaris consortio' la scomunica viene tolta ed essi vengono incoraggiati a partecipare alla vita della Chiesa e a educare cristianamente i loro figli. Era una decisione straordinariamente coraggiosa che rompeva con una tradizione secolare. 'Familiaris consortio' ci dice però che i divorziati risposati non potranno ricevere i sacramenti. Il motivo è che vivono in una condizione pubblica di peccato e che bisogna evitare di dare scandalo".
Tuttavia, aggiunge il professore Buttiglione, in una situazione difficile del tipo sopra descritto sarebbe possibile che si verifichi il caso in cui una persona ha vissuto oggettivamente in una situazione di peccato ma non ha commesso i suoi peccati con piena consapevolezza e/o pieno consenso. Pertanto, si potrebbe fare un passo al di là di quelli fatti da Giovanni Paolo II, anche per motivi pastorali.
Ma Buttiglione trascura qui un passaggio importante di "Familiaris consortio" n. 84. Ed è la vera ragione per cui Giovanni Paolo II stabilisce che i civilmente divorziati e risposati che non hanno annullato il ​​loro primo matrimonio non possono accedere ai sacramenti. Il papa afferma: "La Chiesa ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati". È la Sacra Scrittura che esclude la comunione per questi cristiani.
Buttiglione prosegue: "Non c’è dubbio che il divorziato risposato sia oggettivamente in una condizione di peccato grave; Papa Francesco non lo riammette alla comunione ma, come tutti i peccatori, alla confessione".
Ma così Buttiglione trascura il fatto che papa Giovanni Paolo II non ha pronunciato la sua sentenza solo sulla comunione, ma anche sulla confessione, di nuovo in "Familiaris consortio" n. 84:
"La riconciliazione nel sacramento della penitenza – che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico – può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell'Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l'indissolubilità del matrimonio. Ciò comporta, in concreto, che quando l'uomo e la donna, per seri motivi – quali, ad esempio, l'educazione dei figli – non possono soddisfare l'obbligo della separazione, assumono l'impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi”.
Verso la fine del suo articolo, per un breve momento, Buttiglione sembra adottare una prospettiva giuridica canonica che egli ha trascurato nel resto del suo intervento e senza la quale non si può comprendere appieno la Chiesa. Scrive: "Adesso il divorzio è un fenomeno di massa e rischia di trascinare con sé un’apostasia di massa se di fatto i divorziati risposati abbandonano la Chiesa e non danno più un’educazione cristiana ai loro figli".
Ma qui il mio amico sembra dimenticare che la Chiesa non ha mai cercato di preservare la sua unità con l'annacquamento del suo insegnamento, proprio come Elia e i profeti non cercarono di preservare il regno di Israele con l’abbandono del vero culto di Yahweh.
Cristo ha detto ai farisei che Mosè si è staccato dalla legge naturale quando ha permesso agli israeliti di produrre un certificato di divorzio ("All'inizio non era così"), e che ha deciso questo a motivo della durezza di cuore del popolo ebraico del si tempo. (Secondo alcuni Padri della Chiesa, se Mosè non avesse permesso il divorzio gli israeliti sarebbero arrivati a uccidere le loro mogli). Ciò significa che una persona priva di istruzione cristiana potrebbe essere in grado di comprendere l'indissolubilità del matrimonio, proprio nel modo in cui, di fatto, Platone l’ha compresa (vedi "Leggi" 8, 838-841). Ma la chiave di tutta questa questione sta in ciò che dico ora.
Una persona può magari vivere nelle ombre dell'oscurità e dell'ignoranza senza essere responsabile di un fallimento coniugale nella stessa misura di una persona ben istruita. Ma se il matrimonio di quella persona era valido e nonostante ciò essa risulta sposata di nuovo, tale persona è bigama. Se la persona vive con un altro uomo senza apparire come sposata, è adultera. Come dice Buttiglione, tutti i santi "erano ben consapevoli che il giudice ultimo è Dio solo". Solo Lui può giudicare il segreto del cuore. Ma il sacerdote deve giudicare non il segreto del cuore, ma secondo ciò che la prudenza chiede al pastore secondo la legge di Cristo.
Per questo motivo, se una donna che ha vissuto nelle tenebre dell'ignoranza va da un sacerdote, questo sacerdote è obbligato pastoralmente a portarla alla luce dell'insegnamento di Cristo. Da quel momento la conoscenza e il consenso non possono mancare, se la donna rimane nella situazione di peccato in cui ha vissuto. Se il suo matrimonio canonico è valido, il sacerdote deve guidarla ad avviare un cammino di penitenza che potrebbe portare all’abbandono dell'uomo che ora vive con lei. Oppure potrebbe portarla al momento in cui lei sarebbe pronta a prendere l'impegno pubblico di vivere come sorella, di astenersi dal commettere adulterio.
Come ho detto al professor Buttiglione, io ho una cugina che ha seguito il secondo percorso ed è vissuta ed è morta, al pari del suo compagno, in un modo esemplare. Per anni ha frequentato fedelmente la chiesa e ha pregato e ha partecipato alla messa, limitandosi alla comunione spirituale. Alla fine, entrambi sono stati in grado di assumere l'impegno pubblico di vivere come fratello e sorella. Lei ha beneficiato della vera misericordia illustrata da Giovanni Paolo II in "Familiaris consortio" n. 84. Ha beneficiato della carità che dice la verità intera, senza comprometterla in nome di una falsa misericordia.
Questo è stato il cammino dei catecumeni nella Chiesa primitiva. C'erano delle masse che volevano condividere la grazia di Cristo, ma avevano abitudini e punti di vista che erano in contrasto con gli insegnamenti di Cristo. L'esemplare prudenza di quei tempi portava a ritardare il battesimo, un sacramento che, a differenza della comunione, è necessario per entrare in cielo. E questo è anche ciò che Dio fa nel purgatorio.
Se il sacerdote arriva alla convinzione che il matrimonio canonico della donna non è valido, allora deve aiutarla a ottenere la sentenza di annullamento canonico. Francesco ha promulgato nuovi canoni che facilitano questo cammino, anche se lo fanno in un modo problematico, che non ho intenzione di prendere in considerazione ora. Ma sarebbe utile esplorare delle vie per tenere ferma la legge di Cristo e consentire la massima conformità possibile tra l'ordine canonico e il giudizio di una coscienza fedele.
Anche Giovanni Paolo II ha considerato il caso di una persona che pensa che il suo matrimonio sia nullo ma non è in grado di ottenere una sentenza canonica: ci sono alcuni "che hanno contratto una seconda unione in vista dell'educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido" (FC 84). Proprio pensando a queste persone, egli ha dichiarato che esse non possono ricevere i sacramenti, a causa di ciò che afferma la Sacra Scrittura, come ho detto in precedenza. Perché la dimensione canonica della Chiesa esige che non ricevano i sacramenti coloro che, secondo il giudizio canonico prudente espresso dall’autorità o dal tribunale competente, si trovino in una situazione di adulterio o di bigamia e non siano disposti a modificare la loro vita, per esempio con l'impegno dell'astinenza.
Rocco Buttiglione ha posto esplicitamente in contrasto con il solenne magistero della Chiesa un testo che è soltanto ambiguo e che ha bisogno di un chiarimento in linea con il magistero stesso. Se la donna del suo esempio non è in grado di modificare la sua vita secondo le linee proposte dal magistero, ella non può ricevere l'assoluzione dei suoi peccati, come ha dichiarato solennemente il Concilio di Trento. Se Buttiglione affermasse che nel suo caso i rapporti sessuali con l'uomo che non è suo sposo non sono adulterini, a motivo delle circostanze, allora andrebbe contro gli insegnamenti di "Veritatis splendor". Se ritenesse che tali rapporti sessuali sono adulterini, ma che per lei è impossibile modificare la sua vita, si dovrebbe concludere con il Concilio di Trento che tale donna non è in uno stato di grazia santificante. Perché è anatema chi sostiene che una persona può vivere in uno stato di grazia santificante e al tempo stesso non essere capace di adempiere la legge di Dio.
Ho fatto leggere la mia critica all'autore. Egli ha risposto che è possibile commettere atti gravemente immorali e, nonostante ciò, rimanere nella grazia di Dio. Secondo lui, questa è la dottrina tradizionale della Chiesa nel caso di soldati che si trovino a combattere una guerra. In questo caso, anche coloro che uccidono altri esseri umani possono confessarsi e fare la comunione. Forse che esiste, mi ha domandato, un'azione più cattiva dell’uccisione di un essere umano? E allora una persona costretta a compiere atti sessuali illeciti (che è un male minore dell’uccisione di un altro essere umano) non può ottenere lo stesso trattamento?
Ma questa risposta, gli ho replicato, trascura l'insegnamento sull’oggetto morale contenuto in "Veritatis splendor" n. 78. "Uccidere esseri umani" non è un oggetto morale, ma "commettere omicidio" invece lo è. Un atto di legittima difesa è un atto giusto e lecito, anche se un essere umano viene ucciso.
A questo Buttiglione ha risposto che "l'uccisione di un essere umano è sempre una materia grave di peccato" e che la Chiesa perdona chi uccide anche in una guerra offensiva, perché "la Chiesa pensa che tale persona non sia pienamente colpevole delle azioni sbagliate che commette”.
Sembra a me che questa risposta contenga non l'insegnamento della Chiesa, ma un influsso hegeliano: ci sono delle cattive azioni, come "uccidere" in ogni circostanza, che però a volte sono ammesse, non sono imputabili a chi le compie, perché costui è stato costretto ad eseguire tali azioni. La dottrina hegeliana su questo punto suona umanitaria (uccidere è sempre un crimine!), ma in realtà è maligna, perché potrebbe consentire atti di uccisione che sono, in realtà, ingiusti, mentre invece il cristianesimo insegna che ci sono atti di uccisione giusti e atti di uccisione ingiusti. Se uno capisce che un atto di uccisione è ingiusto, costui deve astenersi dal farlo, anche se la sua vita è in gioco, non importa se si sente costretto. Deve portare la sua croce.
Ammetto che qualche costrizione data dalle circostanze è possibile e che una formazione carente potrebbe ridurre la responsabilità morale. Ma la persona che, alla luce della legge di Cristo, commette abitualmente un atto intrinsecamente cattivo non può ricevere i sacramenti, fino a quando tale persona non avrà il fermo proposito di correggersi. Tale persona può pregare, partecipare alla messa, chiedere la luce, pregare per la sua conversione. Questo è ciò che la Chiesa primitiva faceva, quando sottoponeva a un lungo cammino catecumenale coloro che volevano essere battezzati.
Il vero servizio al papa sta nell'andare da lui a chiedergli con spirito filiale di chiarire in base al solenne magistero della Chiesa le ambiguità contenute in "Amoris laetitia". Aggiungere confusione alla confusione non è un vero servizio.

FONTE:
http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/

Nessun commento:

Posta un commento