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venerdì 8 gennaio 2010

L'Islanda in bancarotta vota per non pagare i debiti

L'Islanda in bancarotta
vota per non pagare i debiti
Una bella via di Reykjavik, città fredda ma colorata e capitale di un Paese finito in bancarotta
Referendum: onoriamo o no gli impegni con gli stranieri?
MARCO ZATTERIN - LA STAMPA
CORRISPONDENTE DA BRUXELLES
Un referendum così non s’è mai visto. Il presidente islandese Olafur Grimsson ha deciso di non firmare la legge che autorizza l’uso di fondi pubblici per rimborsare gli istituti di credito britannici e olandesi rimasti invischiati nel crac dell’ex stella del banking online nordico, la Icesave.

Secondo quando prescrive la Costituzione, sarà ora una consultazione popolare a stabilire se lo Stato dovrà versare o no i 5,7 miliardi di dollari anticipati dai governi di Londra e Amsterdam per coprire i propri risparmiatori. «Faremo in fretta», assicura Grimsson, mentre il voto negativo appare possibile, come le sue conseguenze nefaste per la corsa di Reykjavik verso l’adesione all’Unione europea. La spiegazione è che «il popolo lo vuole», il che magari funziona per gli islandesi ma sarà dura da spiegare alle banche che si sono esposte. La storia risale al 2008, anno in cui la tempesta finanziaria seguita al crollo dei mutui speculativi americani ha fatto collassare la Landsbanki a Reykjavik, un istituto dall’etica finanziaria discutibile che amministrava, tra l’altro, i servizi di risparmio della Icesave.

In seguito alla bancarotta e alla nazionalizzazione della capogruppo, anche i conti correnti sul web sono stati bloccati, creando un buco da sei miliardi di dollari nelle tasche di 400 mila investitori, quasi tutti britannici e olandesi. I cittadini islandesi sono stati subito salvati grazie alla garanzia totale dei depositi. Gli stranieri hanno dovuto attendere. L’economia isolana, fondata sulla finanza e sul merluzzo, è rimasta priva di una delle sue risorse chiave, scivolando in una recessione senza precedenti che ha provocato anche la caduta del governo. La scorsa primavera le redini dell’esecutivo sono passate a Johanna Sigurdardottir, leader socialdemocratica che ha avviato la strategia di risanamento insieme con l’avvicinamento all’Ue, cominciato ufficialmente in luglio.

I 4,6 miliardi di dollari attivati dal Fmi le hanno dato una mano non indifferente. Così si è giunti a fine 2009. Dopo una polemica alimentata da chi diceva che «l’Islanda stava facendo il passo più lungo della gamba», il parlamento di Reykjavik ha adottato con 33 voti a favore e 30 contrari la legge che sdoganava il risarcimento di Regno Unito e Olanda, atto dovuto visto che avevano coperto i risparmiatori rimasti a secco per colpa dell’Icesave. Tutto inutile. Gridando «non pagheremo noi gli errori delle banche» una serie di comitati ha avviato una petizione per bloccare il provvedimento. L’ha firmata un quarto della popolazione.

E Grimsson non ha avuto scelta. «Il mio compito è di accertarmi che la volontà del paese sia rispettata - ha detto ieri sera -. Per questo ho deciso di presentare la nuova legge al giudizio del popolo per un referendum». La premier Sigurdardottir non è d’accordo e appare preoccupata. «Si crea incertezza negli impegni presi con altre nazioni - afferma -. E’ una situazione che può avere conseguenze pericolosissime». E’ d’accordo il segretario di Stato britannico alle Finanze, Lord Myners: «Se votano "no", significa che l’Islanda non intende far parte della comunità finanziaria internazionale».

Più secchi gli olandesi: «Devono pagare», assicura il ministro dell’Economia, Wouter Bos. A Bruxelles si pensa che il mancato rimborso renderebbe difficile accettare Reykjavik nell’Ue. Grimsson lo sa, però «gli islandesi vogliono essere padroni del proprio futuro». Anche a costo di rinunciare all’Europa?

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